Precipita il caccia americano e gli insorti abbracciano il top gun

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Sono tornati i “liberators” del mondo, almeno per un giorno. Erano passati quasi 70 anni dai tempi in cui un pilota americano caduto si era sentito accogliere e abbracciare come un “amico” dalle popolazioni fra le quali era piombato. E doveva cadere un caccia bombardiere F15 in Libia perché una scena nascosta nella memoria dei vecchi si ripetesse. Non «Yankee go Home», in Cirenaica, ma «Yankee come Home». È stato un F15E Strike Eagle, il primo del “nostri” caduti in Libia, ma non ci sarà  un “Hanoi Hilton”, un campo di prigionia e di tortura per i due aviatori americani piombati per loro somma fortuna in territorio controllato dai ribelli anti-Gheddafi, che li hanno circondati e accolti a pacche sulle spalle. Ci saranno soltanto l’imbarazzo, e il tormentoso debriefing davanti ai superiori per spiegare come e perché il primo aereo di questa “alleanza col mal di pancia” perduto nell’Odissea libica sia stato americano. Per scoprire se davvero quei 100 milioni di dollari spesi dallo zio Sam per comperare il caccia siano andati in fumo e rottami per colpa di un guasto, di uno stormo di uccelli inghiottiti dai motori, di un colpo fortunato di contraerea o per loro errore. Erano ad alta quota, dove gli aerei della “coalizione dei confusi” hanno l’ordine di incrociare per ridurre al minimo le perdite, il pilota e il suo “wizzo”, come si chiama in gergo il secondo ufficiale addetto alle apparecchiature e alle contromisure elettroniche, quando si sono aggrappati alle due maniglie che fanno esplodere la cupola di plexiglas e sparano fuori il sedile con il paracadute. Alla velocità  di crociera di 490 nodi, oltre 900 chilometri all’ora, l’impatto con l’aria è un pugno bestiale. Prima è caduto il pilota, che non era in vena di eroismi. Mio Dio, deve aver pensato ciondolando appeso al paracadute, casco fra le belve arabe, fra i jihadisti di Al Qaeda, come Gheddafi chiama i ribelli. Si è prontamente arreso di fronte ai civili con kalashnikov che lo avevano circondato correndo. Le braccia in alto, nella testa le immagini di altri americani sacrificati come agnelli, il pilota ha visto mani tendersi verso di lui, raccontano i ribelli, tremando. «Amico, amici, viva Obama, viva America», gridavano. Poi è stato individuato il “wizzo”, caduto molto lontano da lui, e ai ribelli in ciabatte, pickup e felpe di famose marche tarocche deve essere sembrato un sogno l’apparizione dal cielo di uno strano velivolo bianco, un Osprey, l’ibrido aereo-elicottero a decollo verticale dei Marines, spedito per salvarli. Forse, i due hanno lasciato ai ribelli quei “chicklets”, quelle gomme da masticare, quel sapone, quelle lamette e quel pacchetto di pronto soccorso (ma non più preservativi o sigarette, per la sicura delusione del ribelle) che ogni pilota porta nel necessaire di sopravvivenza. Di certo, è stato un salvataggio convulso: i Marines negano, ma pare che sei libici siano stati feriti nell’operazione, colpiti dai proiettili sparati dai soccorritori prima di atterrare. Per i due aviatori è stato un lieto fine. Un finale ben diverso da quello che avevano vissuto gli equipaggi dei 2.251 aerei abbattuti sopra il Nord Vietnam dai missili Sam. O dalla sorte che aveva atteso gli i due piloti italiani di Tornado, il maggiore Bellini e il capitano Cocciolone, abbattuti dalla contraerea irachena a bassa quota e ostaggi di Saddam. Per i due “liberators” caduti ieri, si dice per guasti meccanici anche se il loro F15E ha due motori ed è notoriamente una macchina anzianotta ma robustissima, non saranno necessari gli eroismi dei piloti che incrociavano sopra la giungla asiatica per l’operazione di ricerca e salvataggio. Non sarà  fatto un film retorico ed eroico come quello dedicato al capitano Scott O’Grady, «Dietro le linee nemiche», centrato da un missile mentre sorvolava la Serbia ai comandi del suo F16 per creare, nel 1995 come adesso, una no-fly zone sull’ex Jugoslavia. Dopo giorni in territorio nemico, sfuggendo alle pattuglie serbe e serbo-bosniache, anche O’Grady venne ripescato da un elicottero dei Marines. Partito propria dalla stessa nave appoggio, la Kearsarge, che ieri, come nel 1995, si è mossa per salvare gli aviatori caduti in Libia. C’è scritto «Affinché voi possiate vivere» sul distintivo che gli specialisti militari del Search and Rescue portano sui giubbotti. Ma non è soltanto generosità  umana, dovere di camerateria verso i compagni in uniforme. Il terrore dei comandi, oltre che dei piloti, sono la cattura, il destino dell’ostaggio, l’interrogatorio, l’uso propagandistico che il nemico sempre cercherà  di fare, arrivando a piegare anche i più forti, come John McCain, e costringerli a leggere lettere e documenti di condanna contro la loro patria, come sicuramente Gheddafi avrebbe fatto con loro. Neppure i corpi dei caduti devono essere lasciati sul campo, giurano i Marines. Soltanto i rottami devono essere lasciati indietro, purché siano rottami, altrimenti tornano altri bombardieri a frantumarli. Ma quei due aviatori fortunati porteranno a casa, negli Stati Uniti, il racconto incredibile di una folla araba che li ha abbracciati e ringraziati, e magari oseranno pensare che il mondo che la propaganda aveva raccontato anche a loro sta cambiando. Di nuovo.


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