“Torture psicologiche e molestie sessuali noi in mano ai fedelissimi del regime”
Il governo libico lunedì ha liberato quattro giornalisti del New York Times a sei giorni dalla loro cattura, avvenuta mentre seguivano il conflitto tra il governo e le forze ribelli nella città orientale di Ajdabiya: consegnati a diplomatici turchi, hanno varcato il confine con la Tunisia. Come altri giornalisti occidentali, i quattro erano entrati nel Paese senza visto dalla frontiera egiziana. Si tratta di Anthony Shadid, dei due fotografi Tyler Hicks e Lynsey Addario e del reporter e video-grafico Stephen Farrell. È successo tutto martedì scorso, quando, dopo essersi spinti ad Ajdabiya, hanno capito che la situazione si stava facendo troppo pericolosa. Mentre si allontanavano dalla città , l’autista è incappato in un checkpoint presidiato da uomini fedeli al raàs. Quando si sono accorti del pericolo, era già tardi. «Ho gridato all’autista di non fermarsi, di tirare dritto», racconta Hicks. L’autista, Mohamed Shaglouf, è tuttora disperso. Hicks oggi riconosce che se avesse cercato di forzare il checkpoint, l’auto sarebbe stata presa a bersaglio dai militari. Mentre i soldati tiravano fuori a forza i reporter dalla vettura, i ribelli hanno iniziato a sparare: i giornalisti sono scappati, cercando di mettersi in salvo. «Le pallottole atterravano sul suolo tutt’attorno a noi», racconta Shadid. Raggiunto il retro di un piccolo edificio per ripararsi, i soldati li hanno ripresi, obbligandoli a svuotare le tasche e a sdraiarsi a terra. I quattro hanno pensato che di lì a poco sarebbero morti. «Ho sentito gridare in arabo ‘sparagli!’ – dice Shadid – e abbiamo pensato che per noi fosse finita». Poi un soldato è intervenuto: «No, sono americani, non possiamo ucciderli», racconta Hicks. I militari hanno racimolato tutto il disponibile per legare i prigionieri: cavi, il filo di un elettrodomestico, una sciarpa. Uno ha tolto le scarpe alla Addario, e dopo aver sfilato i lacci li ha usati per legarle i polsi. Un altro l’ha schiaffeggiata, ridendo. «A quel punto sono scoppiata a piangere», dice la fotografa. «Più piangevo e più lui rideva». Un uomo le ha palpato il seno e quello è stato solo l’inizio delle molestie che avrebbe subito nelle 48 ore seguenti. «Quasi tutti gli uomini che ci hanno avvicinati mi hanno toccata in ogni centimetro del corpo, salvo sotto gli indumenti intimi». I carcerieri hanno tenuto i giornalisti ad Ajdabiya finché gli scontri a fuoco con i ribelli sono cessati, quindi li hanno caricati su un automezzo e portati fuori città verso le 2 di notte. Uno dei militari ha minacciato di decapitare Hicks, e un altro ha colpito più volte Addario alla testa dicendole ripetutamente che di lì a poco sarebbe morta. «Mi carezzava il capo in quel modo perverso, quasi teneramente, dicendo: ‘Stanotte morirai, questa sarà la tua ultima notte’». Gli inviati del New York Times hanno trascorso la prima notte nel retro di una vettura, la seconda in una cella con materassi lerci a terra, una bottiglia per urinare e una brocca d’acqua da bere. Il terzo giorno sono stati caricati su un aereo, bendati e ammanettati con legacci di plastica. «Sentivo Anthony gridare “Aiuto!’ – dice Hicks – soltanto in seguito ho saputo che aveva perso sensibilità alle mani». Mosso a pietà , un soldato gli ha allentato le manette. I quattro giovedì sono atterrati a Tripoli e consegnati ad alcuni uomini della Difesa. Trasferiti in un rifugio sicuro e trattati bene, ciascuno di loro è stato autorizzato a fare una breve telefonata. Finalmente, a due giorni e mezzo dalla loro cattura, i familiari e colleghi hanno avuto loro notizie. L’arrivo dei quattro giornalisti a Tripoli giovedì ha segnato l’inizio di tre giorni di difficili negoziati condotti da un funzionario del Dipartimento di Stato, Yael Lempert. Le autorità libiche hanno più volte cambiato le condizioni e le richieste, e la coalizione degli alleati – compresi gli Stati Uniti – ha iniziato a bombardare Tripoli per imporre la no-fly zone. In un primo tempo il governo libico aveva chiesto che fosse un diplomatico americano a recarsi a prenderli. Alla fine hanno accettato la mediazione dell’ambasciatore turco. Proprio con lui, lunedì i quattro hanno attraversato la frontiera passando sani e salvi in Tunisia. (©New York Times – la Repubblica; traduzione di Anna Bissanti)
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