Che cosa si nasconde dietro il volto e la voce di Nathan Zuckerman

Loading

A lungo ho pensato che se, a partire da Pastorale americana, Philip Roth aveva trasformato Nathan Zuckerman, prima protagonista dei suoi romanzi, in un cronista relegato ai margini del vorticoso scorrere della vita da un’operazione alla prostata che lo ha reso impotente e incontinente, era stato per zittire i suoi critici. Lo rimproveravano di parlare sempre e solo di sé e di scrivere, dietro il paravento del romanzo, l’interminabile autobiografia di quello scrittore che lui stesso era. Si rifiutavano di credergli quando dichiarava che la sua opera non era una confessione leggermente alterata, ma un’indagine sull’esistenza, e che nel suo alter ego, Zuckerman, la parte dell’alter non era inferiore a quella dell’ego. Per quanto Roth uccidesse e poi resuscitasse il suo personaggio e gli concedesse di attraversare avventure che lui stesso non aveva mai vissuto, per quanto insomma lo proiettasse nelle infinite direzioni della propria vita possibile, i suoi detrattori restavano fermamente convinti che l’autore seguisse un’unica traccia, quella della sua vita reale. Nulla poteva disarmare la critica come far passare con un colpo di bisturi Nathan Zuckerman dallo status di protagonista a quello di ascoltatore. Considerato il temperamento battagliero di Philip Roth, questa ragione deve aver avuto la sua importanza. Ma leggendo La macchia umana ne ho scoperta un’altra, più profonda e significativa. Tutto ciò che succede ci giunge sotto forma di racconto. E i racconti ai quali persino i più esigenti tra noi prestano fede, i racconti che produciamo noi stessi in modo spontaneo per introdurre un ordine nell’anarchia degli avvenimenti sono edificanti ed elementari. (…) Affidando la narrazione delle proprie storie post-Zuckermaniane a Nathan Zuckerman, Philip Roth assegna una dimensione umana a quel gesto salvifico: lo incarna. Lo integra nell’intreccio. Gli conferisce una presenza fisica. L’arte del romanzo entra nel romanzo. L’invenzione assume la forma di un’inchiesta, il racconto si colloca sullo stesso piano della storia, e tale rifiuto della visione dall’alto è qualcosa che travalica l’adozione di un procedimento narrativo o il ricorso a un artificio: il lettore non è posto soltanto di fronte alla trama e al dramma di una vita ma a un conflitto (in cui è in gioco ogni vita) fra l’immaginazione letteraria e le proiezioni del riduzionismo morale. «Perché noi non sappiamo, no? … Perché le cose vanno come vanno? Cosa? Tutto ciò che sta sotto l’anarchia del corso degli avvenimenti, le incertezze, i contrattempi, il disaccordo, le traumatiche irregolarità  che caratterizzano le vicende umane … Non puoi sapere nulla. Le cose che sai… non le sai. Intenzioni? Motivi? Conseguenze? Significati? Tutto ciò che non sappiamo è stupefacente. Ancor più stupefacente è quello che crediamo di sapere». Noi non sappiamo. Ma soprattutto non sappiamo di non sapere. Crediamo di sapere. L’ignoranza non è un vuoto ma un troppo – pieno di scenari e di certezze, che bisogna perciò svuotare; e a tale compito si dedica il narratore della Macchia umana. Senza la mediazione di Zuckerman, Philip Roth sarebbe stato costretto a fare comparire Faunia Farley dal nulla. Tramite il suo personaggio feticcio, può invece portare direttamente in scena l’immaginazione, e non come prerogativa del creatore o facoltà  esclusivamente estetica, ma come utensile ermeneutico, come l’unica arma di cui disponiamo per opporre resistenza alle immagini che lo pseudosapere incessantemente produce: lo pseudosapere di Delphine Roux e del suo femminismo astratto, ma anche lo pseudosapere di Coleman Silk, le cui confidenze hanno permesso a Nathan Zuckerman di ricostruire il personaggio di Faunia, ma che era stato a sua volta tratto in inganno. Il giorno delle esequie, Nathan scopre che sia Faunia sia Coleman recitavano una commedia: lei la commedia dell’analfabetismo, lui quella del colore della pelle. Erano entrambi attori e disertori. Lui aveva voluto sottrarsi al diktat delle proprie origini; lei, ancora più radicale, aveva voluto sfuggire alla cultura. La donna non nutriva illusioni sui propri simili, alla compagnia dei quali preferiva quella delle cornacchie, in particolare di una cornacchia di nome Prince, messa in salvo dalla protezione animali. Perché quella cornacchia? Perché era la messaggera della natura, il paradiso da cui l’uomo è stato cacciato? Non proprio. Prince era un uccello tragicamente disadattato. Quando usciva dalla gabbia per andare ad appollaiarsi su un albero, veniva aggredito dalle altre cornacchie e doveva battere precipitosamente in ritirata per non farsi massacrare. «”È quello che succede quando crescono in cattività ” disse Faunia. “Ha passato tutta la vita con gente come noi, e questo è il risultato. La macchia umana … noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità , crudeltà , abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui … È in ognuno di noi. Insita. Inerente. Qualificante … Ecco perché ogni purificazione è uno scherzo. Uno scherzo crudele, se è per questo. La fantasia della purezza è terrificante. È folle. Cos’è questa brama di purificazione, se non l’aggiunta di nuove impurità ?” ». In questo monologo fondamentale, Faunia Farley liquida in un colpo solo le due concezioni dell’origine che si contendono il nucleo vitale del Tutti sanno: il male e la pastorale, il peccato e l’innocenza, sant’Agostino e Jean-Jacques Rousseau. La macchia non è un castigo, è un fatto. C’è. Non si aspetta grazia o redenzione, ma di essere accettata come una modalità  della nostra condizione. Liquidarla in nome della virtù o della vocazione sovrannaturale dell’uomo è pericoloso, ed è ridicolo negarla in nome della presunta bontà  dell’uomo naturale. Faunia aveva abbandonato la cultura ed era persino arrivata a fidanzarsi con Prince (lasciando scivolare nella sua gabbia l’anello regalatole da Coleman), non per accedere a un mondo incontaminato ma perché non voleva più saperne delle crociate purificatrici che la cultura intraprende, stimola o legittima. (Adelphi, pagg. 224, euro 20).


Related Articles

Quel dolore di una madre raccontato da Joan Didion

Loading

Esce “Blue Nights”, il libro dell’autrice sulla perdita della figlia di 30 anni     

La legge aurea delle invenzioni

Loading

PROPRIETà€ INTELLETTUALE
Le nuove norme europee sui brevetti saranno ratificate il prossimo mese. Sono in linea con quelle vigenti da anni negli Usa, dove è in corso una feroce «patent war», che vede le imprese investire molto più che nella ricerca scientifica

Uno sfruttamento da mattatoio

Loading

«Crimini in tempo di pace. La questione animale e l’ideologia del dominio», per Elèuthera

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment