Contropiede palestinese

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L’accordo di ‘riavvicinamento’ raggiunto ieri al Cairo da Fatah e Hamas potrebbe mietere sin dai prossimi giorni la sua prima vittima: la pace. Con l’intesa “è stata varcata una linea rossa” che porterà  a ritorsioni, dice il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Liebermann; “nessuna pace con i terroristi, Fatah, scelga la pace con Israele o la pace con Hamas”, aggiunge il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu; “nessun negoziato con Hamas, un’organizzazione criminale”, puntualizza il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak. Ma il sasso è stato lanciato, in modo del tutto inatteso, e ha finito per far male soprattutto agli israeliani, ai quali è da sempre convenuto uno status quo di belligeranza tra le due fazioni. Da quando finanziò e armò Hamas contro Fatah, prima di ri-finanziare e ri-armare Fatah contro Hamas una volta che il movimento islamico cominciò a fare troppo di testa sua, ottenendo la maggioranza del consenso popolare nella Striscia di Gaza. Oggi il governo di Tel Aviv minaccia di limitare la libertà  di movimento dei leader politici dell’Anp in territorio israeliano, e di congelare il trasferimento dei fondi di dazi doganali e tasse raccolte per conto dell’Autorità  palestinse (oltre 50 milioni di euro al mese).

Quattro anni dopo la guerra civile, i due rivali si preparano a dar vita a un governo unitario di transizione verso elezioni parlamentari e presidenziali, che dovranno tenersi entro otto mesi, quindi prima della fine dell’anno. L’accordo vero e proprio verrà  siglato al Cairo il cinque maggio prossimo, sotto l’egida dell’Egitto post-Mubarak, e potrebbe aprire la strada a una riunificazione che – qualora avvenisse – potrebbe scombinare le carte nei rapporti tra gli occupanti israeliani e i futuri ‘interlocutori’. Chi dovrà , o potrà , dialogare con Tel Aviv, una volta che l’unità  nazionale verrà  raggiunta?

Hamas ha fatto sapere che non chiederà  a Fatah di abbandonare il processo di pace. “Se Fatah vuole assumersi la responsabilità  di negoziare, che lo faccia. Se riuscirà  a ottenere uno Stato, buon per loro”, ha dichiarato Mahmud Zahar, esponente del movimento islamico nella Striscia di Gaza. Tuttavia, Zahar ha precisato che il governo unitario palestinese non avrà  il mandato per portare avanti negoziati con Israele.

I colloqui fra israeliani e palestinesi si sono arenati nel dicembre del 2010 sulla questione insoluta delle colonie. Di fronte a questa impasse, la strategia palestinese si è spostata verso un riconoscimento unilaterale da parte della Nazioni Unite di uno Stato indipendente entro i confini del 1967, con Gerusalemme Est come capitale. La questione potrebbe essere nuovamente discussa davanti all’assemblea generale delle Nazioni Unite nel settembre di quest’anno, anche se è nota la storia delle numerose risoluzioni prodotte dal Consiglio di sicurezza Onu dal 1948 a oggi, e rimaste totalmente inapplicate da Israele.

Di fronte al dinamismo palestinese di questi giorni, la cieca intransigenza israeliana potrebbe non essere la carta giusta da giocare. La comunità  internazionale, Quartetto per il Medio Oriente in testa, non sembra disposta ad attendere oltre la fine di quest’anno per risolvere la questione di uno Stato palestinese. Netanyahu ha di fronte a sé il mese più importante della sua carriera politica. Il 24 maggio parlerà  a Washington di fronte alle Camere riunite. Se non si presenterà  con una posizione credibile e decisiva sulla questione palestinese, potrebbe non essere più ascoltato. “Se – scrive su Haaretz l’editorialista Ari Shavit – non recupera il credito diplomatico perduto, potrebbe non essere più considerato una figura leader nell’area. Né sopravvivere politicamente”.


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