“Non possiamo più dirci apocalittici”

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Il pensiero di René Girard vira in senso ottimistico. In questi nostri tempi “apocalittici”, uno dei più affascinanti e trasversali pensatori contemporanei – è antropologo, esperto di psicoanalisi, critico letterario e saggista che cattura nello svelarci i miti come eventi vividi e provocatori delle violenze perpetrate dalla Storia – vede il mondo proiettato in un corso pacificatorio e unificante: i conflitti si attenuano, aumenta il dialogo, l’umanità  sembra puntare alla conciliazione. «È sempre più sviluppato il contatto tra le genti», afferma Girard al telefono da Stanford, la città  californiana in cui vive da molti anni e nella quale ha sede l’università  dove ha insegnato più a lungo. «Persino l’isolazionismo statunitense cede il passo ad aperture nuove nei confronti di luoghi distanti ed economicamente fragili. Gli americani, che prima non si curavano di vicende lontane da loro, si stanno interessando come non mai alle rivolte che sconvolgono gli assetti dei paesi arabi. Basta guardare lo spazio enorme che ha dato la tivù statunitense a quel che è accaduto in Egitto, in Tunisia, in Siria, in Libia e nello Yemen», segnala Girard. A 88 anni la sua voce è incerta e faticata; ma sulla questione araba si esprime in modo vigoroso, quasi martellante.
Eppure nel passato recente, Professor Girard, la sua prospettiva sul futuro pareva molto pessimistica. 
«Ma la realtà  sa trasformarsi in fretta: oggi i paesi arabi stanno compiendo una metamorfosi che fino a poco tempo fa sarebbe stata inconcepibile. Molte nazioni islamiche vorrebbero somigliare alle democrazie occidentali, e i popoli arabi si scagliano contro regimi corrotti e autoritari in nome di valori condivisi come la giustizia e la libertà : non è un caso che l’Egitto si sia affrancato senza alcun intervento da parte degli islamisti. Ovunque, nel mondo, le persone tendono a riconoscersi come individui e sono più sensibili a ciò che avviene nel resto del pianeta. Perciò non parliamo più di apocalisse, per favore: è un termine tanto di moda quanto inappropriato».
Le mode, certo, non si addicono a un filosofo indifferente agli “ismi” come Girard, che è nato ad Avignone nel 1923 ma ha lavorato soprattutto negli Stati Uniti, accolto fin dagli anni Cinquanta nelle più prestigiose università  americane. Con dichiarata estraneità  all’intellighenzia francese di sinistra, e totalmente allergico a celebrati capofila come Althusser e Lévi-Strauss, l’anticonformista Girard, durante tutta la sua vita, ha tradotto la propria adesione al cristianesimo in un irrinunciabile motore cognitivo. Atteggiamento che molti intellettuali suoi connazionali non gli hanno perdonato. In questi ultimi tempi, tuttavia, la Francia sembra averlo riscoperto, come se il trascorrere degli anni ne avesse dimostrato lo spessore: «Non avendo mai cercato di essere nel vento», ha scritto L’Express, «René Girard è sfuggito a ogni tempesta». 
Un’ottima accoglienza ha meritato il suo Achever Clausewitz, tradotto anche da Adelphi (suo editore italiano di riferimento) col titolo Portando Clausewitz all’estremo: un saggio che analizza i terrorismi e i fondamentalismi odierni partendo dal trattato ottocentesco Sulla guerra, dello stratega prussiano Carl von Clausewitz. E sono appena usciti in francese, con estremo ritardo, due libri che riguardano o coinvolgono Girard, entrambi per Flammarion. Uno è Avons-nous besoin d’un bouc émissaire?, che il teologo austriaco Raymund Schwager (1935-2004) ha dedicato alla concezione del capro espiatorio, perno del sistema filosofico girardiano: suggestiva teoria che al meccanismo sacrificale, dominante in tutte le società , oppone l’unicità  del messaggio cristiano, capace di decretare, col sacrificio di Gesù, l’innocenza della vittima. L’altro, Sanglantes origines, raccoglie testi di antropologi americani ed europei (tra cui lo stesso Girard) sulle radici delle civiltà , riconducibili a un nucleo essenziale del pensiero del filosofo di Avignone, ben intrecciato alla sua tesi-principe sul capro espiatorio: quello del “desiderio mimetico”, cioè plasmato sul desiderio altrui e quindi suscitatore di rivalità , essendo l’eccitazione mimetica ciò che spinge il gruppo a compiere delitti, che si considerano sanciti dal fato o da una divinità . Da parte sua Girard, in quell’evento-chiave del cristianesimo che è la crocifissione, identifica l’anti-sacrificio capace di smascherare il male, ricondotto alla sua natura terrena e quindi spogliato dalla menzogna pseudo-espiatoria creata per “divinizzarlo”. Da qui attinge la sua sostanza di filosofo cristiano.
Che ne dice del consenso finalmente ottenuto dai suoi scritti in Francia? 
«Mi sembra che si sia affermata da tempo una considerazione notevole del mio lavoro anche nel mio paese, come confermano i numerosi riconoscimenti ufficiali che vi ho ricevuto».
È dunque ottimista anche da questo punto di vista?
«Come si può non esserlo, oggi? Gli eventi di questi ultimi mesi sono confortanti. Quello che è successo in gennaio al Cairo – insieme alla rivolta tunisina di dicembre, alle proteste in Libia, all’opposizione sollevatasi nello Yemen, ai fatti della Giordania – è una prova concreta della possibilità  di unire l’Islam e i valori occidentali. La ribellione parte dal basso, dalla gente vera, e attacca tutti i regimi autocratici».
Vede il medesimo clima positivo in Europa?
«L’Italia è agitata e instabile, ma non la Francia. Il governo di Sarkozy sta garantendo stabilità . So quanto la sinistra francese gli sia ostile, ma è impossibile non rendersi conto dell’ottima impostazione della sua politica economica. E l’ondata di terrorismo islamico, che per un certo periodo ha minacciato il continente, oggi sembra superata». 
Come si è collocata, in questa sua prospettiva ottimistica, la crisi libica? 
«Gheddafi è la peste: un tiranno vero. Il rifiuto che lo ha investito all’interno del suo paese è un altro frutto dello tsunami politico mediorientale. La presa di coscienza del popolo libico non può che considerarsi salutare».
Chi è il capro espiatorio, in una situazione del genere?
«Spesso è il popolo a diventare la vittima sacrificale. La storia del popolo russo, da questo punto di vista, è emblematica. Per centinaia di anni ha avuto la funzione di capro espiatorio. Oggi, forse, è meno vittima di prima, ma è ancora ingiustamente sofferente. Gli uomini hanno sempre bisogno di capri espiatori. È la catarsi espressa anche dalla poetica di Aristotele: l’eroe muore e lo spettacolo consolida la collettività , che chiede condanne a morte per istituirsi. Quella del capro espiatorio è un’eccitazione mimetica della comunità  contro una vittima designata per motivi accidentali o in quanto oggetto di desiderio. Il che, certamente, non s’applica a vittime tutt’altro che innocenti come lo fu Saddam Hussein, o come lo potrebbe diventare adesso Gheddafi. Ma una tragedia che può fungere da esempio di tale meccanismo, nella storia recente, è rappresentata dall’Olocausto».


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