La sfida di Obama:”Ofra fermiamo Al Qaeda in maniera definitiva”

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Signor presidente, quando la Cia le ha trasmesso per la prima volta queste informazioni, qual è stata la sua reazione?

«Poco dopo il mio insediamento alla Casa Bianca ho convocato il direttore della Cia, Leon Panetta, nello Studio Ovale e gli ho detto: “Dobbiamo raddoppiare gli sforzi per trovare Bin Laden”. La Cia ha fatto un lavoro incredibile per un anno e mezzo per identificare un corriere, per seguirlo fino a quella struttura. Ma non avevamo una foto di Bin Laden all’interno dell’edificio. Non c’era nessuna prova diretta della sua presenza, perciò la Cia ha continuato le indagini con meticolosità . Quando sono venuti da me per la prima volta a illustrarmi la situazione gli ho detto: “Continuate a studiare meglio la questione, ma nel frattempo cominciamo anche a elaborare un piano d’azione”».
In che momento è stato messo in moto il piano?
«Sono venuti per la prima volta da me con le informazioni sull’edificio nell’agosto dello scorso anno. La pianificazione vera e propria è cominciata solo all’inizio di quest’anno».
Lei è stato coinvolto attivamente nel processo e in che misura?
«Abbiamo avuto molte riunioni per mettere a punto il piano: avevamo un modellino dell’edificio e discutevamo dei vari modi per effettuare l’operazione».
È rimasto sorpreso quando le hanno parlato di questa struttura? Nel mezzo del cuore militare del Pakistan…
«Direi che siamo rimasti sorpresi quando abbiamo scoperto che questo edificio era lì da 5 o 6 anni. Perciò sì, la risposta è che ci siamo stupiti che fosse riuscito a tenere in piedi un fortino del genere senza che le forze di sicurezza ne venissero a sapere qualcosa».
Qual è stata la parte più difficile della decisione?
«Mandare delle persone a rischiare la vita. Ci sono tantissime cose che possono andare storte. Perciò la mia preoccupazione principale era: se mando laggiù questi ragazzi e succede qualcosa, siamo in grado di riportarli via? Questo è il primo punto. Il secondo punto è che devono entrare nell’edificio nel buio della notte. E non sanno che cosa troveranno lì dentro, se l’edificio ha dei sistemi di difesa. Non sanno, per dire, se quando apriranno una certa porta scatterà  una trappola esplosiva. I rischi erano enormi. Perciò la mia prima preoccupazione era: se li mando laggiù, sono in grado di tirarli fuori? Anche se i nostri servizi di intelligence avevano fatto un lavoro straordinario, in fin dei conti la situazione era ancora 55 a 45. Non eravamo in grado di dire con certezza che lì dentro c’era Bin Laden. Se non lo avessimo trovato lì dentro, ci sarebbero state conseguenze serie. Stavamo entrando nel territorio sovrano di un altro Paese».
Alcuni dei suoi collaboratori più stretti erano reticenti…
«Guardi, una delle cose che abbiamo fatto con la mia Amministrazione è stato costruire una squadra dove ognuno dice apertamente quello che pensa. Quindi il fatto che qualcuno abbia espresso i propri dubbi è stato importantissimo, perché ha consentito di affinare il piano, perché mi ha messo nelle condizioni, quando alla fine ho preso una decisione, di farlo sulla base delle migliori informazioni possibili».
Quanto hanno pesato nella decisione certe missioni fallite in passato, come il tentato blitz per liberare gli ostaggi in Iran?
«Tantissimo. Pensi a Black Hawk Down [l’elicottero americano abbattuto dai ribelli in Somalia nel 1993 ndr.]. Pensi a quello che successe con la missione in Iran. Mi sento molto vicino alla situazione con cui si sono dovuti misurare altri presidenti quando si è trattato di prendere una decisione: si cerca di prendere la decisione migliore considerate le circostanze, e poi qualcosa va storto. Quindi sì, assolutamente. Il giorno prima non facevo che pensare a quelle missioni».
Ha dovuto reprimere il desiderio di raccontarlo a qualcuno? A Michelle?
«Uno dei grandi successi di questa operazione è il fatto di essere riusciti a tenerla segreta. Questa è la dimostrazione che tutti avevano preso estremamente sul serio questa operazione, e avevano la consapevolezza che qualunque fuga di notizie avrebbe rischiato non soltanto di compromettere la missione, ma di provocare la morte di alcuni dei ragazzi che stavamo mandando laggiù. Pochissime persone alla Casa Bianca lo sapevano. Quasi tutti i miei più stretti collaboratori non lo sapevano».
Andiamo alla Situation room. Com’era l’atmosfera?
«Tesa».
Parlavate?
«Sì, ma moltissimo tempo lo passavamo anche ad ascoltare la situazione in tempo reale. Ricevevamo dei rapporti da parte di Bill McRaven, il capo delle nostre forze speciali e da Leon Panetta. E ci sono stati lunghi momenti in cui non facevamo altro che aspettare. Sono stati i 40 minuti più lunghi della mia vita, tranne forse quando Sasha si ammalò di meningite, a tre mesi, e aspettavo che il dottore mi dicesse che stava bene».
Sentivate il rumore degli spari?
«Capivamo quando c’erano spari o esplosioni».
Vedevate i lampi?
«Sì. Ed eravamo informati anche che uno degli elicotteri era sceso giù in un modo che non rientrava nei piani»
Quindi l’operazione era partita male?
«Diciamo che le cose non sono andate esattamente secondo i piani, ma è stato proprio qui che tutto il lavoro che era stato fatto per prevedere cosa potesse andare storto ha dato i suoi frutti».
C’era un piano di riserva?
«Sì».
Quando avete avuto il primo indizio che lì dentro c’era Bin Laden?
«C’è stato un momento in cui hanno detto che Geronimo era stato ucciso. E Geronimo era il nome in codice per Bin Laden. È chiaro che in quel momento tutti erano cauti. Ma a quel punto eravamo prudentemente ottimisti».
Quando ha cominciato a sentirsi sicuro?
«Quando sono atterrati ormai avevamo prove molto attendibili che si trattava di lui. Gli avevano scattato delle foto. L’analisi dei tratti del volto indicava che era effettivamente lui. Non avevamo ancora fatto il test del DNA, ma ormai eravamo sicuri al 95%».
Ha visto le foto?
«Sì».
Qual è stata la sua reazione?
«Era lui».
Perché non le avete rese pubbliche?
«Abbiamo discusso la questione. Tenga conto che siamo assolutamente certi che si tratta di lui. Abbiamo fatto un prelievo di DNA e poi il test. Non c’è il minimo dubbio. È importante per noi evitare che circolino delle foto, molto esplicite, di una persona che è stata uccisa con una pallottola in testa, perché non vogliamo che suscitino ulteriori violenze. Non vogliamo che siano usate come strumento di propaganda. Noi non siamo quel tipo di persone. Non esibiamo roba del genere come se fosse un trofeo. Quest’uomo meritava la sorte che ha ricevuto. E credo che gli americani e la gente di ogni parte del mondo siano felice che non ci sia più. Mostrare queste foto così esplicite avrebbe creato dei rischi per la sicurezza nazionale. Ho discusso della faccenda con Bob Gates, con Hillary Clinton e con i servizi di intelligence e tutti erano d’accordo».
C’è gente, ad esempio in Pakistan, che dice che «è tutta una bugia. È un altro trucco degli americani. Osama non è morto».
«È morto senza ombra di dubbio. I membri di Al Qaeda sanno benissimo che è morto. Perciò non pensiamo che una fotografia possa fare la differenza».
Ha preso lei la decisione di farlo seppellire in mare?
«È stata una decisione congiunta. Abbiamo pensato che fosse importante decidere in anticipo dove avremmo seppellito il corpo se fosse stato ucciso e abbiamo cercato, consultando esperti di diritto e rituali islamici, di trovare un metodo che fosse rispettoso della salma. Parlando con franchezza ci siamo preoccupati della faccenda molto più di quanto se ne sia preoccupato lui quando ha ucciso 3.000 persone. Ma anche questa è una delle cose che ci rende diversi da lui».
Che cosa ha fatto una volta conclusa la missione?
«Ho detto: “L’abbiamo preso”. Ma voglio sottolineare che non è stato solo merito nostro. Il presidente Bush dal 2001 ha messo in atto grandissimi sforzi per raggiungere questo risultato. Per me quindi è stato un momento di grande orgoglio vedere che la nostra nazione è stata capace di eseguire tanto bene un compito tanto difficile. Il giorno dopo l’operazione ho ricevuto una lettera, l’e-mail di un’adolescente che aveva parlato con suo padre quando aveva 4 anni, prima che le torri crollassero, e suo padre era dentro le torri. E questa ragazza ha raccontato com’era stato diventare grande negli ultimi 10 anni avendo sempre quell’immagine di suo padre. Ed è a questo che ho pensato».
Domenica ha detto: “Le nostre forze anti-terrorismo in Pakistan hanno contribuito a portarci da Bin Laden”. Può essere più specifico?
«Non posso dire tutto perché ci saranno altri terroristi a cui dare la caccia in futuro. Quello che posso dire è che il Pakistan, dopo l’11 settembre, ha collaborato a strettissimo contatto con noi nella lotta al terrorismo. Ci sono state occasioni in cui non ci siamo trovati d’accordo. Ma abbiamo ucciso più terroristi in territorio pachistano che in qualsiasi altro posto, e non avremmo potuto farlo senza la collaborazione dei pachistani».
Non avete informato nessuno all’interno del governo o delle forze armate del Pakistan?
«No».
Neanche all’interno dei loro servizi segreti?
«No».
Non vi fidavate?
«Se non rivelo nemmeno ad alcuni dei miei più stretti collaboratori che cosa stiamo facendo, non vado certo a dirlo a persone che non conosco.»
Secondo lei qualcuno, all’interno del governo o dei servizi segreti del Pakistan sapeva che Bin Laden viveva lì?
«Pensiamo che ci fosse una sorta di rete di supporto all’interno del Pakistan. Ma non sappiamo chi ne facesse parte o in cosa consistesse. Dovrà  indagare il governo del Pakistan. Li abbiamo già  informati e hanno detto che hanno tutto l’interesse a scoprire che genere di supporto può aver ricevuto Bin Laden».
Ha qualche informazione su quello che è stato rinvenuto nell’edificio?
«Stiamo analizzando e valutando con la massima attenzione tutto quello che abbiamo. Ma possiamo anticipare che è materiale che può fornirci indizi su altri terroristi. Ma ci può anche aiutare a capire meglio i piani esistenti, i loro metodi operativi e i loro metodi di comunicazione. Ora abbiamo l’opportunità  di sconfiggere davvero una volta per tutte Al Qaeda, almeno nella regione di confine tra Pakistan e Afghanistan. Questo non significa che sconfiggeremo il terrorismo».
Bin Laden era un uomo unico: ha gettato ombra sulla Casa Bianca per quasi un decennio.
«È vero. Sono stato molto nervoso per tutta questa faccenda, ma l’unica cosa che non mi ha fatto perdere il sonno era la possibilità  che Bin Laden rimanesse ucciso. Giustizia è stata fatta. E credo che chiunque sostenga che l’autore dell’omicidio di 3.000 persone sul suolo americano non meritasse di fare la fine che ha fatto dovrebbe farsi visitare».
(Copyright Cbs – Traduzione di Fabio Galimberti)


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