Laureati finiti all’estero: +40% in 7 anni

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ROMA – Via dall’Italia in cerca di successo, di reddito, di lavoro. Via da un paese di vecchi: con un progetto in testa e la certezza che per realizzarlo bisogna andarsene, nei primi dieci mesi dello scorso anno si sono trasferiti all’estero 65 mila giovani italiani. Tutti sotto i trenta anni, tutti convinti che è tempo di migrare. E’ come se una cittadina di medie dimensioni si svuotasse completamente: Savona o Viterbo deserte in meno di un anno. Un fenomeno in crescita visto che fra il 2000 e il 2007 gli italiani laureati che lavorano in paesi Ocse sono aumentati del 40 per cento.

Il fatto in sé potrebbe essere positivo se non fosse che si sposa con un tasso interno di disoccupazione giovanile del 27,8 per cento. Non si va quindi, per fare esperienza e poi tornare: sempre più spesso si va per restare. Intelligenza ed energia sottratta al futuro del paese.
Lo hanno fatto notare i giovani dell’Ance (l’associazione dei costruttori) che al tema hanno dedicato un convegno: «Vado o resto?». «Siamo davanti ad un esodo biblico – commenta Alfredo Letizia, il loro presidente – se si pensa alle polemiche sui 25 mila tunisini sbarcati in Italia nei mesi scorsi, il dato dovrebbe allarmare e invece lascia incredibilmente indifferenti governo e parlamento. Senza giovani non può esserci alcun futuro». Per gli under-30 dell’edilizia a spingere verso la fuga è soprattutto l’esistenza di «un ambiente ostile al merito, impermeabile alla proposta, indifferente ai problemi del cittadino». 
Meno ragazzi, dunque, e con un titolo di studio meno elevato: il rapporto dei giovani Ance fa notare che in Italia la quota dei laureati in età  compresa fra i 30 e i 34 anni è pari al 19 per cento (dati 2009), l’obiettivo fissato dalla Comunità  europea per il 2020 è del 40 per cento: abbiamo una decina di anni di tempo per raddoppiare. Non sarà  facile visto che l’Italia destina all’istruzione solo il 4,3 per cento del Pil, contro il 5,6 della Francia e il 5,4 del Regno Unito. E sarà  ancora meno facile se – come ricorda l’Istat – si considera che il 18,7 della popolazione giovanile (quella compresa fra i 15 e i 29 anni) appartiene alla generazione Neet (not education, employment or training). «Chi rimane – conclude il rapporto dei giovani Ance – non è iscritto a scuola o all’università , non lavora né segue corsi di formazione». 
Altro guaio è che – come ci si potrebbe aspettare da un’economia globale – non arrivano cervelli stranieri a sostituire quelli italiani. L’Italia infatti non attrae talenti: gli immigrati con elevato livello d’istruzione, secondo dati Ocse, rappresentano solo il 2,3 per cento della popolazione laureata, contro l’11,5 della Germania e il 17,3 della Gran Bretagna. Chi pensa di farcela non viene qui.
Da dove si riparte? «Da un impegno collettivo del paese – risponde Letizia – servono regole chiare che alimentino la concorrenza, bisogna dare spazio al merito e superare il conflitto fra generazioni». «Qui si è creato un conflitto esasperato – dicono anche i giovani costruttori – all’estero lavorare è una condizione normale, in Italia è un problema da risolvere ogni volta».

 


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