Mogli di Bin Laden, contesa Usa-Pakistan

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ISLAMABAD — È braccio di ferro tra Stati Uniti e Pakistan sulle tre mogli di Osama Bin Laden. Ancora non è chiaro quanto il commando dei Navy Seals pianificasse di portarle via nella notte dal covo di Abbottabad, se non avesse perduto il secondo elicottero. Possiamo immaginarle: spaventate, sperdute, isolate dal mondo degli uomini e degli avvenimenti, come lo sono in genere le mogli dei combattenti della Jihad sunnita, e ancora più isolate per 5 anni nell’ultimo rifugio del leader di Al Qaeda, catturate con i loro figli dai servizi segreti pachistani per interrogatori senza fine. Per i primi giorni dopo il blitz del 2 maggio quasi nessuno si è occupato di loro. Poi sui media pachistani sono apparse le prime fughe di notizie circa le loro dichiarazioni agli inquirenti: la storia (ancora tutta da verificare) di un altro covo non troppo distante da quello di Abbottabad sin dal 2003, nuove rivelazioni sulla salute di Osama, la vita quotidiana del terrorista più ricercato del mondo. E ora proprio loro sono diventate una delle cartine al tornasole più evidenziate della grave crisi esplosa tra Washington e Islamabad. Non stupisce che la Cia voglia interrogarle. Non solo ricevere gli eventuali rapporti da parte dei colleghi dell’Isi, il servizio segreto pachistano. Ma inviare sul posto propri agenti per arricchire con nuovi dettagli le informazioni prese dai computer e dal materiale raccolti nei 40 minuti del blitz. «Speriamo di poterle vedere e interrogare direttamente» , confermano ufficiosamente dalla capitale americana. Non è strano. Dopo tutto è dal 2001 che i due servizi cooperano sul campo. Un meccanismo oliato dagli oltre un miliardo di dollari donati annualmente dagli Usa allo Stato pachistano. Le due saudite, i nomi sono indicati come Umm-e-Hamza e Umm-e-Khalid, pare siano più rigide. Sarebbe invece malleabile la più giovane, la yemenita Amal Ahmad Abdulfattah, oltre ai bambini (9 o 11, a seconda delle fonti, tra figli e nipoti di Osama). Non solo: Omar Bin Laden, parlando a nome dei suoi fratelli, ha minacciato «azioni legali a livello internazionale» contro gli Stati Uniti per avere seppellito in mare Osama: «Una decisione che umilia la nostra famiglia» . A Islamabad puntano i piedi. Dopo l’offesa, la vergogna e la confusione dei primi giorni, lunedì il premier Yousaf Raza Gillani ha pronunciato un discorso al parlamento in difesa di esercito e servizi. Le accuse contro «l’arroganza» degli Usa sono all’ordine del giorno. Quasi tutti i quotidiani pubblicano editoriali contro «l’unilateralismo» americano. Tra i commentatori, anche i più autorevoli, torna in auge la tesi per cui si dovrebbe abbandonare «l’ambigua alleanza con Washington per guardare con più attenzione a Pechino» . A sottolineare quanto i servizi di sicurezza siano stati colti impreparati dal «colpo alle spalle inferto dagli Usa» , l’Isi lascia trapelare la confusione della prima ora dal blitz, quando gli alti comandi a Rawalpindi pensarono di essere sotto un attacco indiano contro i silos dei missili nucleari che si trovano nella regione. Conseguenze: l’Isi sembra non aver alcuna intenzione di mettere in contatto i membri della famiglia Bin Laden sotto suo controllo con gli americani. «Non abbiamo ricevuto richieste formali in merito— specificano al ministero degli Esteri —. Comunque per ora non se ne parla. Troppo presto anche solo per pensarci» . Il clima si è avvelenato quando venerdì i media pachistani hanno diffuso il nome del responsabile della Cia a Islamabad. Gli americani sono convinti si tratti di una vendetta da parte dell’Isi.


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