“Missione: uccidere Bin Laden” Obama mantiene la promessa
new york – Parole testuali, una scelta precisa di termini. Missione dura, una sola vittoria possibile: niente cattura, la morte. Un compito da allora affidato a tutti gli apparati della sicurezza nazionale profondamente rimescolati dalle nomine di Obama. Così la sua America ha fatto centro dove quella di George Bush aveva fallito per quasi otto anni. L’ex presidente ieri si è inchinato davanti al successore: «C’è voluto molto, non importa – ha detto Bush – perché giustizia è fatta». A suo tempo Bush era stato meno determinato («lo voglio vivo o morto», disse sei giorni dopo l’11 settembre), i suoi uomini avevano mancato il bersaglio nel dicembre 2001 nella battaglia di Tora Bora. Obama dal suo arrivo alla Casa Bianca mise da parte lo slogan troppo ampio sulla «guerra globale contro il terrore». Per concentrarsi – «come un laser», osserva il New York Times – sull’eliminazione di «Geronimo» (questo il nome in codice, si è appreso ieri, che la Cia aveva dato a Osama Bin Laden): tanto più urgente visto che stava cercando di procurarsi armi nucleari, e la proliferazione atomica è un’ossessione di questo presidente. Su un punto però la “sua” Cia, guidata dal fedelissimo Leon Panetta poi promosso alla Difesa, ha tenuto duro contro l’ala sinistra del partito democratico: non si fanno processi al passato. Così a fianco alle innovazioni ci sono stati elementi di continuità con l’èra neocon. Obama ha finito per non chiudere Guantanamo: un orrore per i diritti umani, ma un luogo dove sono stati “estratti” indizi importanti sul “corriere personale” di Bin Laden. Inoltre la Cia ha continuato a usare rivelazioni ottenute sotto tortura dalle polizie di paesi alleati: anche da quelle fonti risalgono alcune “dritte” per identificare il nascondiglio di Bin Laden. La vittoria di Obama avviene in un momento delicato per la sua strategia in quell’area – Afghanistan e Pakistan – cruciale per la sicurezza degli Stati Uniti e ormai designata con l’abbreviazione geopolitica Afpak. Questo è l’anno in cui, secondo la promessa solenne di Obama, avrà inizio il ritiro dall’Afghanistan: a fine luglio l’escalation si rovescia in un ridimensionamento graduale. E dopo? Le notizie dal fronte afgano fino a ieri erano allarmanti: nessuno prende sul serio l’idea che il corrotto Karzai diventi il bastione contro i Taliban. Il ritorno a casa dei soldati americani veniva descritto in anticipo come la ripetizione di altre ritirate ingloriose: britannica, sovietica. E che dire del Pakistan, la polveriera nucleare pronta a finire sotto un regime islamico, o nelle braccia della Cina? Ieri Hillary Clinton si è premurata di sottolineare che la «cooperazione del Pakistan» è stata preziosa per localizzare Bin Laden. Ma quel covo contrariamente alla leggenda non era su montagne sperdute, era a un’ora di auto dalla capitale Islamabad e soprattutto a 500 metri dall’accademia militare pachistana di Abbottabad. «Non abbiamo prove che i servizi pachistani sapessero che si nascondeva lì»: questa sibillina precisazione rilasciata dalla Cia sotto la nuova guida del generale Petraeus, la dice lunga. «Il Pakistan non è stato consultato prima dell’operazione – conferma il consigliere antiterrorismo di Obama, John Brennan – non avevano idea di quel che stava accadendo». Al punto che i caccia pachistani si sono alzati in volo per intercettare lo “stormo” di elicotteri della Us Navy comandati dalla Cia. «Ma il Pakistan resta un partner strategico», conclude Brennan. Questo, da oggi, sarà tutto da dimostrare. Come anche l’effetto della morte di Bin Laden sul teatro di guerra afgano visto dall’opinione pubblica americana, a un anno e mezzo dalle elezioni presidenziali: sarà irresistibile la voglia di dichiarare “vittoria e guerra finita”, per tornare a casa, a prescindere dalle chance di ritorno dei Taliban. Tanto più che ieri gli strateghi politici di Obama, con in testa il “guru” del 2008 David Axelrod, sconsigliavano ogni trionfalismo. L’uccisione di Bin Laden sarà «una pagina di storia che ha consacrato Obama statista e ha cambiato il segno della sua presidenza», come sostiene il Washington Post, ma Axelrod ricorda che George Bush padre passò dall’aureola di eroe nazionale dopo la guerra del Golfo nel 1991, alla sconfitta nelle presidenziali del ‘92. Contro un certo Bill Clinton il cui slogan più celebre fu: «È l’economia, stupido».
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