Tomba Mediterraneo

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Sono vent’anni che il Canale di Sicilia è attraversato dalle barche di chi viaggia senza passaporto verso la riva nord del Mediterraneo. Eppure una cosa così si era mai vista. Dall’inizio dell’anno è una strage senza precedenti. Sono già  almeno 1.408 i nomi che mancano all’appello. Uomini, donne e bambini annegati al largo di Lampedusa. In soli cinque mesi. I dati sono quelli dell’osservatorio Fortress Europe. Da gennaio sono scomparse più persone di quante ne morirono in tutto il 2008, l’anno prima dei respingimenti, quando si contarono 1.274 vittime a fronte di 36.000 arrivi in Sicilia. Il tasso di mortalità  delle traversate è aumentato in modo apparentemente inspiegabile. Ma è sufficiente scomporlo per farsi un’idea più precisa.
Dall’inizio dell’anno sono sbarcate circa 14.000 persone dalla Libia e 25.000 dalla Tunisia. Eppure di quei 1.408 morti soltanto 187 sono annegati sulla rotta tunisina. Mentre sulla rotta libica i morti sono addirittura 1.221. Come dire che sulla rotta tunisina ne muore uno su 130 mentre sulla rotta libica ne muore uno su 11. Dodici volte di più. I conti non tornano. Quei morti sono troppi. Non può essere soltanto il mare. E il dato potrebbe essere ancora più allarmante. Perché nessuno è in grado di dire quanti siano i naufragi di cui non si è saputo niente. L’ultimo l’ho scoperto per caso due giorni fa, parlando con alcuni superstiti in un centro di accoglienza del nord Italia.
«Eravamo 600 persone. Le barche erano talmente malridotte che ci veniva da piangere al solo pensiero di partire. Ma non avevamo scelta. I militari ci costringevano a salire. Sulla prima barca montarono in 320, c’erano tantissime donne e bambini, perché li avevano fatti salire per primi. Sulla nostra barca invece eravamo un po’ di meno, in 280. Siamo partiti così, loro davanti e noi dietro».
Sono le sette del mattino del 27 aprile 2011. E dal porto di Zuwara prendono il largo due vecchi pescherecci caricati all’inverosimile con 600 passeggeri. Il tempo all’inizio è buono. I comandanti sono tunisini. I due pescherecci navigano affiancati uno all’altro, verso nord. Ma già  nel primo pomeriggio la bussola si rompe. O almeno così dice il capitano. Che propone di aspettare il tramonto del sole per potersi orientare con le stelle. Ma insieme al tramonto arriva anche una brutta tempesta.
«Eravamo in mezzo alla tempesta, la barca ogni volta che andava giù sembrava sprofondare nel mare, eravamo circondati da montagne di acqua, e le onde sbattevano sul ponte. Eravamo tutti fradici e infreddoliti, al buio… Io cercavo solo di stringere forte tra le mie braccia il bambino, che non faceva altro che piangere. A un certo punto abbiamo sentito
gli altri iniziare a gridare. Dicevano “Aiuto, aiutateci! Aiutateci, aiuto! Si rompe! Si rompe si rompe si rompe! Prendeteci prendeteci! È caduto è caduto!”. Sentivamo quelle grida in mezzo all’oscurità , senza capire da dove provenissero, se fossero davanti, a destra o a sinistra. Non vedevamo niente. C’è stata una grossa discussione a bordo. Alcuni dicevano che dovevamo aiutarli. Altri facevano notare che non c’era neanche il posto per noi a bordo, dove li avremmo messi? Rischiavamo di morire tutti per andarli a salvare».
Il capitano è tra quelli che volevano andare a prestare soccorso, ma alla fine si fa convinto a lasciarli al loro destino e con una virata si allontana dalla zona dell’incidente. Quando si alzano le prime luci dell’alba, la scena è terrificante.
«Il mare era cosparso di pezzi di plastica, sacchetti, vestiti, jilet di salvataggio. E in lontananza abbiamo visto anche dei corpi a galla ondeggiare. La barca si era spezzata e era colata a picco portandosi con sé tutti i 320 passeggeri. Nessun superstite. Eravamo terrorizzati, e per non cadere nel panico, abbiamo deciso di passarci alla larga per non vedere la scena del massacro».
Anche perché nel frattempo ci sono stati dei morti anche sul peschereccio del nostro testimone, una decina di persone cadute in mare spazzate via da un’onda che si è schiantata sul ponte durante la tempesta. L’incubo finisce il primo maggio alle quattro di pomeriggio, quando la barca attracca a Lampedusa. Nonostante la fine del viaggio, alcune donne a bordo continuano a piangere. Perché sull’altra barca avevano i mariti. Nella foga dell’imbarco infatti i militari al porto di Zuwara non avevano perso tempo a tenere uniti i nuclei familiari. E così alcune famiglie si sono ritrovate divise tra le due navi.
Questa testimonianza spiega meglio di ogni altra analisi politica i dati al rialzo delle stragi nel Mediterraneo. Non è il mare l’unico responsabile di tanti morti. Sono soprattutto i militari libici. Perché questa volta gli sbarchi sono davvero un’operazione interamente organizzata dal regime. Che a differenza delle mafie che gestivano le traversate prima, non ha bisogno che la merce arrivi a destinazione. Paga il regime. È l’ultima arma rimasta al regime libico. Le bombe umane. L’obiettivo è spedirne oltremare il maggior numero possibile, come ritorsione contro i paesi europei.


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