Valutare le scuole scommessa impossibile?

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Eppure non si tratta di sfide che comportino bocciature o debiti destinati a incidere sugli scrutini ma soltanto di una specie di censimento a quiz con risposte multiple e chiuse (tra cui il soggetto dovrà  scegliere quella che gli sembrerà  più giusta) e che a settembre dovrebbe fornire un quadro complessivo del grado degli studi nelle nostre scuole in italiano e matematica. L’iniziativa è definita enigmaticamente “prova Invalsi”. Acronimo misterioso ai più che, alla fine, una sperimentata professoressa alla vigilia della pensione, che assieme a numerose altre, si è rifiutata di “somministrare” i quesiti (secondo il verbo usato dai promotori) mi ha chiarito: Invalsi sta per “Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione”, incaricato, appunto, di promuovere, definire, “somministrare” i questionari, elaborare le risposte. La discussione che si è svolta attorno ai diversi momenti dell’iniziativa ha risentito, come tutto ciò che si discute all’interno delle istituzioni scolastiche, di quella astrusità  del linguaggio pedagogico che ha finito per tradursi in un gergo incomprensibile, così da estraniare coloro che democraticamente dovrebbero essere i più diretti interessati alla discussione – genitori, politici, intellettuali, giornalisti e gli stessi studenti – da una leggibilità  trasparente dei temi sul tappeto. Per capire, dunque, il perché di tante resistenze o approcci furbeschi (risposte suggerite dai professori di classe, laddove incaricati di seguire direttamente l’esame) o consegne in bianco o scritte a casaccio, ecc. mi sono procurato direttamente i questionari: uno per l’italiano, uno per la matematica e un terzo sulla vita personale, sociale e famigliare dello studente, così da monitorare in qualche modo il contesto differenziale tra le risposte di un liceale del centro di Milano e un allievo delle professionali di Catanzaro. Ho letto con attenzione i quesiti di italiano: alcuni si riferivano all’individuazione di risposte attinenti la grammatica e la sintassi, altre proponevano un testo e implicavano la ricerca del significato e della tipologia (è un saggio di linguistica? un’intervista?, una relazione metodologica?). Vi sono, infine, lunghi brani di racconto o di saggistica (ad esempio sulla linguistica) la cui comprensione e relativi quesiti implica un livello formativo molto elevato, non fosse altro per la conoscenza dei vocaboli e concetti impiegati.

Ho confrontato questo questionario a quello personale (quanti libri hai in casa? hai una tua scrivania? cosa fanno i tuoi genitori, ecc?) ma non sono riuscito a capire quali “correzioni matematico-statistiche” permetteranno di equiparare le risposte prevalenti nelle scuole di eccellenza di un centro cittadino al disastro ambientale di una professionale di periferia. Detto questo e pur sostenendo l’esigenza assoluta dell’introduzione di un sistema valutativo efficace, mi permetterei un giudizio elementare: gli insegnanti hanno sempre rifiutato forme di valutazione esterne all’ordinamento (ricordate la fine del ministro Berlinguer col governo Prodi, quando azzardò il famoso “quizzone”, le cui risposte avrebbero dovuto segnalare le differenze di capacità  fra i singoli insegnanti?). Neppure oggi manca la paura che i risultati possano servire, anche se non lo si confessa, per premiare o punire le singole scuole e i singoli insegnanti. Se anche questa risulterà  una occasione perduta le responsabilità  però andranno divise tra chi ha promosso dall’alto e slegata dalle molteplici realtà  una difficilissima ancorché indispensabile iniziativa e chi l’avrebbe comunque rifiutata.


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