Arrestata Amina, la “gay girl” di Damasco e il web si mobilita per la blogger dissidente

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«Gli uccelli volano liberi, non conoscono confini». L’ultimo messaggio del suo blog è un inno a quella libertà  per cui lottava con le parole. Una poesia che ora suona più graffiante di un urlo. Prelevata per strada da uomini armati, Amina Araf è diventata una delle decine dei desaparecidos siriani, vittima di quegli stessi abusi che dall’inizio della rivolta contro la dittatura ha denunciato con franchezza sulle “pagine” del suo diario digitale, tanto da diventare fonte di informazioni per la stampa internazionale.
A denunciare la sua scomparsa, sul suo stesso sito, è stata la cugina di Amina, che in rete si firmava con un cognome finto, Abdallah. Anche se poi non nascondeva nulla di sé. Neanche la sua identità  sessuale. Anzi, la sbandierava già  nel nome del suo blog: “A gay girl in Damascus”. Una sfida chiara per un Paese dove l’omosessualità  è reato e dove Amina, figlia di un’americana e di un siriano, si era trasferita nell’estate del 2010 per scrivere un libro dopo aver vissuto a lungo negli Usa. Ma forse a risultare più indigesti al governo in questo momento, più che i suoi gusti, erano le sue denunce e la sua visibilità  all’estero. Eppure neanche dopo aver ricevuto visite dalla polizia segreta del presidente Bashar Assad, Amina aveva ammorbidito i toni. Ad aprile, aveva raccontato sul blog, agenti in borghese erano andati a casa sua: l’avevano minacciata e accusata di essere un’estremista salafita. L’intervento di suo padre aveva impedito che la portassero via e Amina, agguerrita come prima, aveva ripreso a scrivere. Della sua difficile vita di musulmana, lesbica, sotto un regime.
Un regime che forse inizia a mostrare le prime crepe: l’ambasciatore della Siria in Francia Lamia Chakkour avrebbe annunciato le dimissioni a France 24 per il «ciclo di violenza» nel Paese. Annuncio attorno al quale però si crea un vero e proprio giallo, visto che poco dopo in un video trasmesso su Al Arabiya una donna che dice di essere il diplomatico sostiene di non avere alcuna intenzione di lasciare il suo incarico. Ad ogni modo, tale sarebbe la violenza sommaria del regime che ormai non basterebbero più le carceri e gli stadi per rinchiudere i dissidenti. Secondo il quotidiano panarabo Ashraq al Awsat, infatti, anche scuole, cinema e depositi commerciali verrebbero usati per rinchiudere gli arrestati e gli scomparsi. Che, stando gli attivisti per i diritti umani, sono10mila.
Amina era pronta a diventare uno di loro. Solo il 5 giugno aveva scritto: «Tengo le unghie corte: se dovessero prendermi non possano strapparmele». Teneva inoltre il suo nome scritto sul corpo perché, aveva fatto sapere, venga riconosciuto «nel caso finisca in una fosse comune». E allo stesso tempo scriveva di Assad e i suoi: «Dovete andarvene subito». «La Siria si è svegliata», aveva dichiarato in un’intervista al quotidiano Guardian. «Prima o poi vinceremo».
Davvero troppo audacia per il regime. Così alle 18 di lunedì Amina spegne il pc, si dirige con un’amica a un appuntamento con attivisti locali e tre giovani armati, in borghese, la fermano. Secondo la ricostruzione dei testimoni apparsa sul blog, viene strattonata, fa in tempo ad urlare all’amica di avvertire il padre e viene spinta a forza in una macchina. «Una Dacia Logan rossa. Con un adesivo sul finestrino di Bassel Assad (fratello defunto del presidente, ndr)», denuncerà  poi la cugina Rania Ismail. Ora è lei ad aggiornare il blog. «Pensiamo che venga liberata presto. Ma continuiamo a pregare», scriveva ieri sera, mentre sul web la mobilitazione per chiedere la scarcerazione di Amina era già  partita. In meno di 24 ore i membri della pagina su Facebook “Free Amina Abdallah” sono oltre tremila.


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