La svolta referendaria

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 L’affluenza alle urne, piuttosto bassa anche ai ballottaggi, rende l’idea di quanto ciò sia difficile. Tuttavia è proprio il referendum il passaggio essenziale per dimostrare la vocazione maggioritaria di questa nuova progettualità , radicalmente alternativa rispetto alla visione che ha fin qui dominato e che ancora spadroneggia non soltanto al governo ma anche in Parlamento.
I referendum infatti (proprio come i candidati vincenti di Milano, Napoli e Cagliari) letti nel loro insieme, rompono senza ambiguità  con il ventennio del pensiero unico. Quelli sull’acqua possono finalmente mettere la pietra tombale sull’ideologia delle liberalizzazioni che ha avuto, e in gran parte ancora ha, nel Partito democratico (incluso il segretario nazionale) una sua roccaforte.
Da anni raccogliamo dati a livello internazionale sui risultati effettivi delle privatizzazioniliberalizzazioni (per fortuna nessuno perde più tempo cercando di distinguere i due concetti). Da ben prima della grande crisi del 2008 siamo stati capaci di redigere, con metodo empirico, le leggi ferree che le governano: aumento delle tariffe; riduzione degli investimenti (anche sulla sicurezza: vedi ritorno dell’epatite A in Inghilterra); aumenti dei compensi dei manager; aumento dei budget per la pubblicità  (necessari per controllare l’informazione). Da anni sappiamo che la gestione privata è incompatibile con i beni comuni, perché essi (ciò vale anche per i servizi pubblici diversi dall’acqua, come il trasporto e la gestione dei rifiuti) resistono alla logica produttivistica ed aziendalistica e vanno governati nella logica ecologica della riproduzione (in altre parole devono essere sostenuti da sussidi perché il loro valore è ecologico) e della soddisfazione dei diritti fondamentali.
Da anni sappiamo che la contrapposizione fra pubblico e privato, declinata nella (falsa) alternativa secca a somma zero fra Stato e mercato (più stato=meno mercato; più mercato=meno stato) stritola i beni comuni come una tenaglia, perché stato e mercato, lungi dall’essere antitetici, sono il prodotto storico della stessa logica individualistica, gerarchica e competitiva che, se non imbrigliata da processi politici autenticamente democratici e partecipativi, produce soltanto violenza e saccheggio. Stato e mercato cospirano contro i beni comuni e la follia nucleare costituisce la quintessenza di tale tradimento dell’ interesse pubblico (ossia collettivo) a favore di quello privato (sia esso delle imprese beneficiarie degli appalti o dei partiti appaltatori). La questione nucleare non c’entra con quella energetica! Essa, come la costruzione delle Piramidi nell’antico Egitto o le grandi dighe nelle società  idrauliche, serve soltanto a costruire un modello di controllo sociale fondato sulla centralizzazione piena del potere e delle risorse, sull’ideologia securitaria ed autoritaria e sull’annientamento delle libertà  civili fondamentali dei cittadini. Contro questo modello di sviluppo si sono ribellati i movimenti. I referendum rimettono all’ordine del giorno la necessità  che i requisiti della «pubblica utilità », della «riserva di legge» e dell’«indennizzo equo» non accompagnino solo l’espropriazione del privato a favore del pubblico ma anche del pubblico a favore del privato.
Quella iniziata ieri è una fase costituente decisiva per il nostro paese e forse anche oltre i nostri confini. L’elettorato italiano ha detto basta ad una subcultura politica incapace di adeguarsi alla crisi che stiamo vivendo, ad un linguaggio e ad una prassi che ripetono un triste mantra di continuità  culturale come se la fine della storia non fosse a sua volta finita. È un mantra che, in nome dello sviluppo e di una falsa concezione dell’economia, sa solo offrire un modello di convivenza triste, competitiva, senza rete. Un modello a cui gli elettori stanno finalmente reagendo. Insieme possiamo finalmente costruire un’Italia in cui sia più bello per tutti vivere.


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