Operai Thyssen: disoccupati e discriminati

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Non che ce ne siano tante di aziende disposte a valutare il loro passato professionale. Negli ultimi due anni Ghermai ha fatto un solo colloquio di lavoro, e tra i suoi ex colleghi c’è chi non ha avuto neanche quella possibilità . Sono sedici persone. Sono quello che resta a Torino della multinazionale tedesca dell’acciaio. Il 13 giugno l’azienda gli ha fatto sapere che con la fine del mese sarebbe cessato anche il loro rapporto di lavoro, che da due anni si alimenta solo di cassa integrazione: «Le comunichiamo che dal 30 giugno sarà  collocato nelle liste di mobilità », scrive su carta intestata la Thyssen.

Per questo oggi Ghermai, Mirco, Peter, Luca, Sandro, Marco, Giuseppe, Antonio, e gli altri, tutti tra i 35 e i 55 anni, si ritroveranno di nuovo davanti alla sede della Regione Piemonte. «Anche se è umiliante continuare a manifestare quando è chiaro che nessuno vuole occuparsi di noi», riprende un po’ sfiduciato il 35enne di origine eritrea. Venerdì questi lavoratori hanno scritto una lettera al presidente Napolitano, qualche giorno prima avevano cercato il neosindaco di Torino, Piero Fassino, che però era all’estero per il Comune. Aspettano una risposta. Chiedono un lavoro. Un aiuto a trovare una occupazione, così come è stato fatto per moltissimi dei loro colleghi. Dei 400 in forze alle acciaierie, quando prima della strage del 2007 la multinazionale comunicava la volontà  di chiudere il sito torinese, in cinquanta sono andati in pensione; trenta sono stati assunti all’Amiat, la municipalizzata dei rifiuti. Molti altri sono finiti all’Alenia, c’è chi è entrato all’Enel o in altre aziende private. Aiutati dalla stessa Thyssen o dalle istituzioni, quasi tutti hanno trovato un’occupazione, magari anche soltanto temporanea.
Quasi tutti tranne loro, che sono gli ultimi rimasti dei 48 operai costituiti parte civile al processo sulla strage del 6 dicembre 2007.
«L’accordo sulla chiusura dello stabilimento – ricordano – prevedeva la ricollocazione di tutti i lavoratori, ma è stato ampiamente disatteso: da tre anni ormai veniamo discriminati e non ricollocati come invece è avvenuto per altri nostri ex colleghi non costituitisi parte civile». «Parlano i fatti, non le dichiarazioni», commenta Giorgio, 54 anni, tre figli a carico e una moglie che ha perso da poco il lavoro part-time che aveva: «Chi non ha chiesto i danni all’azienda ha avuto una possibilità ». Una frase che ricorre nei racconti di tutti.

Giorgio adesso spera nella mobilità , «perché in mobilità  è più facile trovare lavoro, costiamo meno alle aziende». Dopo tre anni senza lavoro, l’attesa è anche per i circa cinquantamila euro riconosciuti dal Tribunale come danno per la strage. Con quei soldi Giorgio ha pensato che potrebbe aprire una tabaccheria insieme ad un amico, Ghermai potrebbe decidere di trasferirsi all’estero con la sua compagna, anche lei senza un lavoro fisso.

«Ma puntiamo prima di tutto alla ricollocazione a Torino, c’è un accordo firmato dall’azienda e dalle istituzioni che lo stabilisce», ricorda Mirco Pusceddu, 37 anni, l’anima di questo gruppo di lavoratori. «E poi quel risarcimento non basterebbe ad avviare un’attività  in proprio. Qui per rilevare un’edicola chiedono fino a 400mila euro. Ma quando non hai una busta paga come fai ad ottenere un mutuo?».

Oltre agli operai un risarcimento è stato riconosciuto dal Tribunale anche al Comune, alla Provincia e alla Regione Piemote: circa 4,5 milioni di euro, fra tutte le istituzioni. «Sono soldi che dovrebbero essere investiti per sviluppare l’occupazione», riprende Mirco, che lancia anche un appello al sindaco Piero Fassino: «Ha detto che intende fare della città  la “capitale del lavoro”, una “Gran Torino”. Potrebbe cominciare occupandosi di noi».


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