“Costretta a farmi esplodere” giallo sulla bambina kamikaze

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Lo sguardo di una bambina spaventata: l’unico dato di fatto certo nella vicenda di Sohana Ali Javaid (se è il suo vero nome) è questo. Gli occhi spaventati di una ragazzina di dieci anni di fronte alle telecamere.
La storia di Sohana è stata raccontata ieri dalla polizia pachistana in una conferenza stampa, in cui si è presentata anche la bambina a raccontare la sua storia: la polizia ha spiegato di averla salvata da una rete di persone che l’avrebbero rapita, narcotizzata e costretta a indossare un giubbotto imbottito di esplosivo, ordinandole di premere il pulsante una volta vicino ad un posto di polizia nei pressi di Peshawar, nel nord ovest del Pakistan. La paura della ragazzina – che si sarebbe messa a urlare alla vista dei poliziotti – e la prontezza di riflessi di questi ultimi l’avrebbero salvata: un ufficiale l’avrebbe bloccata, aiutata a disfarsi del giacchetto e portata ai superiori.
Così la storia è stata proposta ieri dalla polizia e dalla stessa Sohana ma le sue parole non sono bastate fra gli attivisti e i giornalisti pachistani a cancellare il dubbio di trovarsi di fronte ad un’operazione di propaganda.
La versione della ragazzina è chiara: «Mi hanno rapito non lontano dalla scuola – ha detto nella conferenza stampa – camminavo quando una macchina bianca si è accostata a me. A bordo c’erano due uomini e una donna: mi hanno presa e trascinata nell’auto. Lì mi hanno messo qualcosa sulla bocca e sono svenuta. Poi quando mi sono svegliata, mi hanno dato dei biscotti e mi sono di nuovo addormentata». Portata in auto nei pressi del checkpoint, la bimba invece di farsi esplodere avrebbe chiesto aiuto a quelle che dovevano essere le sue vittime: «Ho iniziato a urlare perché avevo paura, allora mi hanno presa».
Difficile stabilire se questo racconto sia vero: nel passato diverse volte gli ufficiali pachistani hanno annunciato di aver sventato attentati o arrestato militanti, e molti di questi casi si sono poi rivelati non autentici: lo scopo sarebbe quello di aumentare i loro meriti agli occhi della comunità  nazionale e internazionale. Così, se la presenza di bambini costretti a diventare kamikaze fra le fila degli estremisti che sfidano il governo e i militari pachistani è provata da ricerche e verifiche di giornalisti indipendenti, non si può non notare che sarebbe la prima volta che ad essere coinvolta è una ragazzina. E che ieri per tutta la giornata gli attivisti e i reporter indipendenti che hanno cercato di verificare il racconto non hanno raggiunto risultati. Nella zona di Hashtnagri, Peshawar, dove Sohana dice di vivere, non risulta scomparsa nessuna bambina e nessuno ha riconosciuto la sua foto. Inoltre né la polizia né la stampa sono riusciti a trovare un signor Javaid, descritto dalla presunta figlia come un uomo molto povero, con una moglie che fa le pulizie e un altro figlio di 15 anni. «Non possiamo escludere nulla. Molte volte in questi anni noi giornalisti siamo stati coinvolti in una guerra di propaganda fra i militari e i Taliban: entrambi i lati hanno raccontato storie non vere, e per noi è sempre più difficile verificarle», dice Farzana Marluana, un’attivista e giornalista di Peshawar impegnata sul caso. Di certo insomma, resta solo lo sguardo spaventato della ragazzina.

 


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