Storia di “Gigi il Federatore” una rete di spie e faccendieri da Licio Gelli ai nuovi dossier

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Gigi Bisignani, il Ken Follet italiano, come lo soprannominò Giuliano Ferrara – cui notoriamente piacciono soltanto brutti, sporchi e cattivi – per un romanzetto intitolato Nostra signora del Kgb presentato da Giulio Andreotti in persona, quel giovanottino implume che trent’anni fa soffiava nell’orecchio un po’ duro del povero ministro del Tesoro Gaetano Stammati prima che tentasse il suicidio i desiderata della cosca della P2, di Licio Gelli, di Umberto Ortolani e del loro factotum Giuseppe Battista, da postino di decine di miliardi di tangenti Enimont verso il torrione extraterritoriale della Banca vaticana (e verso le sue tasche) nella prima Repubblica, seppe farsi nella seconda Federatore dei comitati d’affari che da tre lustri percorrono sfrenati il paese cui Berlusconi dettò il verbo: «Andate e arricchitevi». Di potere e di denaro.
Nomine, appalti, grassazione di pubblico denaro, dossieraggi, spionaggio, servizi segreti deviati, interferenze sugli organi costituzionali, il potere in un paese senza cultura e senza onore, come diceva Pasolini, che pure mai vide l’Italia sempre più turpe del nuovo millennio, trovò in Gigi il Federatore di P2, P3, P4. Il prototipo antropologico del “faccendiere”, definizione che non rende giustizia al valore del ruolo reale.
Difficile catalogare tutti i luoghi nei quali il Federatore disponeva e forse ancora dispone di poteri ben superiori a quelli dei titolari ufficiali.
Gianni Letta, capo di stato maggiore operativo del berlusconismo operante, che qualcuno persino a sinistra vorrebbe presidente del Consiglio o addirittura presidente della Repubblica, deve avere o deve dare all’ex giovanotto che dell’imperituro andreottismo fu il migliore germoglio sopravvissuto ai tempi? Di certo in questi anni era l’unico a poter entrare nell’ufficio del potente sottosegretario, titolare certificato di tangenti fin dai tempi dei fondi neri dell’Iri, senza neanche bussare. Quando Angelo Balducci, luogotenente della Cricca degli appalti, vide avvicinarsi pericolosamente le inchieste della magistratura non fu Letta, suo mentore ufficiale, che cercò disperatamente al centralino di Palazzo Chigi, ma il dottor Bisignani, capace di mobilitare spioni e cancellieri, finanzieri e giudici, banchieri e giornalisti.
L’uomo, talvolta, amava mimetizzarsi, come nei suoi romanzi di spionaggio tanto cari a Ferrara, cui ha favorito alcune relazioni vaticane da laico devoto, ma all’urgenza, bastava per rintracciarlo chiamare l’amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni, sua creatura preferita di cui sostenne con vigore la nomina, il suo attaché o la sua segretaria per rintracciarlo fuori dal suo ufficio da manager all’Ilte di Torino. Per un periodo, prima dell’epoca di Alessandro Sallusti, depositaria dei suoi spostamenti era la pasionaria berlusconiana Daniela Santanché.
Altrimenti, funzionava sempre la batteria di potere di Cesare Geronzi, che creò scandalo con il suo sistema di “relazioni istituzionali” prima in via Filodrammatici, negli uffici che furono di Enrico Cuccia, poi a Trieste tra i manager di modi un ancora un po’ legnosi e austroungarici delle Generali. Ma sbaglierebbe chi pensasse che la silenziosa ragnatela del piccolo e oscuro Federatore di tutte le “P” massoniche d’Italia si limitasse ai Letta e ai Geronzi. Scattava e forse scatta tuttora sull’attenti l’ex segretario generale di palazzo Chigi ed ex direttore generale della Rai, Mauro Masi, ricompensato adesso dei goffi servigi resi con una poltroncina minore. S’inchinava e s’inchina, in attesa delle vere bufere giudiziarie ormai prossime, il capo della Finmeccanica Gianfranco Guarguaglini, con la sua signora e con il suo uomo di mano Lorenzo Borgogni. Si genuflette Guido Bertolaso, nonostante sia ancora convinto di meritare il premio Nobel per la sua opera a capo della Protezione Civile, che è costata ai contribuenti centinaia di milioni di euro finiti in appalti gonfiati, in palazzi di Propaganda Fide ceduti da cardinali compiacenti a ministri felloni in cambio di favori pagati con pubblico denaro, o in semplici tangenti, in natura o in denaro, come si usava – in misure relativamente meno appariscente- nella deprecata prima Repubblica. Gianni Letta è Cameriere di Sua Santità , come lo era Balducci prima che scoppiasse lo scandalo della cricca e delle voci bianche che reclutava nei cori vaticani per le sue distrazioni sessuali. Il Federatore non lo è, né mai volle esserlo.
Rifugge la visibilità  mondana e chiesastica, ma è l’uomo che portò, ancora giovinetto, 90 miliardi di lire di tangenti in contanti nel Torrione di Niccolò V in Vaticano.
Allora, nessuno gli chiese niente. E ancora adesso conserva colà  accesso libero.
Figlio di un dirigente massone della Pirelli in Argentina, amico del dittatore Domingo Peron come lo fu Licio Gelli, si narra che in punto di morte il papà  affidò il giovanissimo Luigi all’altro suo amico Giulio Andreotti, che non mancò di sostenerne le ambizioni, conculcando magari quelle dell’incolpevole fratello Giovanni che, dopo essere assurto nei tempi d’oro al vertice dell’Alitalia, vegeta oggi alla Iata.
Sono passati decenni, ma il sistema andreottiano incorporato dal berlusconismo e rafforzato dai mutanti comitati d’affari delle massonerie laiche e cattoliche, alla mammella del denaro pubblico, non ha abbandonato gli antichi adepti.
Gigino il Federatore, con tante che ne ha vissute, oggi ha la memoria un po’ corta. Ci ha chiamati in giudizio sostenendo che mai ha fatto parte della P2 di Licio Gelli. Ha dimenticato che più di trent’anni fa, quando omino svelto e scattante faceva il giornalista all’Ansa e uscì la lista della loggia gelliana col suo nome, ci invitò piangente in un caffè su uno dei colli di Roma per raccontarci quale grande errore avesse commesso ad affiliarsi al Venerabile dell’intrallazzo. Infatti, pur molti anni dopo, fu espulso dalla professione. Ma divenne il grande Federatore dei faccendieri italici. Potere e milioni.
Adesso darà  forse ai magistrati che lo perseguono la versione di Berlusconi su uno degli ultimi comitati d’affari che nominava presidenti di Cassazione e di Corti d’Appello e istruiva dossier sessuali su candidati presidenti di regione che disturbavano il boss campano Nicola Cosentino: «Quattro pensionati sfigati». O citerà  Arcangelo Martino, uno degli sfigati della P3: «Ma quale associazione segreta, signor giudice, semmai un’associazione di figure ‘e mmerda».


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