Un nuovo protettorato chiamato Lusitania

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LISBONA – Quando il Portogallo entra nella Comunità  europea nel 1986 Anibal Cavaco Silva, leader del Pds (centro-destra), aveva concluso il primo dei suoi 10 anni di premiership. Stiamo parlando dell’era di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan, l’era della scommessa sui servizi e della fine dell’industria. Anche in Portogallo, come in Gran Bretagna, si decide di smobilitare, le merci si comprano all’estero, si è convinti che tutto sommato il turismo basterà  a compensare le importazioni. Il Partito comunista denuncia i rischi di chiudere troppo frettolosamente le fabbriche, i partner europei invece incoraggiano.
Il settore manufatturiero ridotto oggi a circa 800 mila addetti, (un milione e mezzo nel 1991), fatica a competere ed è in costante emorragia di posti di lavoro. Troppo bassi i livelli di investimento in tecnologia, troppo piccole le dimensioni delle imprese (il 95% ha meno di 10 dipendenti e assorbe il 43% della mano d’opera), bassi i livelli di scolarizzazione degli imprenditori (il 70% ha la terza media) e il costo del lavoro, a fronte di salari bassissimi, aumenta senza sosta.
I cospicui finanziamenti stanziati dalla Ue a partire dall’86, sono andati tutti, o quasi, ad alimentare una colossale colata di cemento: la più grande rete autostradale d’Europa (in proporzione al numero di abitanti), il nuovo quartiere dell’Expo, gli stadi per gli europei di calcio del 2004 e altre opere pubbliche costosissime e tutte più o meno inutili. Perché sproporzionate, ma soprattutto inefficaci nel colmare le fragilità  del tessuto economico che, invece, avrebbe avuto bisogno di politiche specifiche.
Secondo grave errore commesso, soprattutto a partire dagli anni ’90, è stato quello di cercare di stimolare i consumi con politiche di credito facile: l’ammontare del debito privato è oggi di circa 2,5 volte superiore al pil e infatti il sistema bancario non regge e crolla. Molti i miliardi investiti dal governo Socrates per tamponare le falle di un sistema creditizio troppo «generoso», il deficit pubblico che nel 2008 era al 3,5% passa nel 2010 al 10% e 15 dei 78 miliardi di euro arrivati da Fmi-Ue andranno direttamente per rifinanziare gli istituti di credito. Stato sociale e amministrazione pubblica, ora sul banco degli imputati, c’entrano poco o nulla nel fallimento del paese. L’«aiuto» internazionale è stato chiesto solo per salvare il sistema finanziario, nazionalizzando in questo modo il completo ammontare delle perdite.
In questo contesto il quadro delineato dal protocollo imposto dalla troika non fa altro che sanzionare e rafforzare due aspetti già  presenti prima della crisi: i disequilibri economici tra nord e sud Europa e la nascita di fatto di un protettorato. Detto in poche parole: il sistema continua ad essere democratico, perché si vota, ma è sostanzialmente autoritario, perché i partiti e i sindacati faticano a contare.
Quello che sta succedendo è però solo la fine di un lungo percorso iniziato all’indomani della crisi economica del 1973 e che coinvolge in un modo o nell’altro tutto l’occidente. Con la fine del sistema di Bretton Woods nel 1971 tutto il sistema di cooperazione economica internazionale deve essere ripensato. Uno degli obiettivi principali di chi governa in quegli anni non è tanto quello di uscire dalla crisi, la disoccupazione serve, rende i lavoratori più docili, ma quello di erodere la partecipazione democratica. Occorreva cioè spostare il potere di deliberazione dai parlamenti nazionali, troppo sensibili alle pressioni dell’opinione pubblica, a nebulosi e vincolanti consessi sovranazionali. Un esempio flagrante è la complessa e poco trasparente struttura di decisione all’interno dell’Unione europea, del Wto e della Bce che, sfuggendo ai più elementari criteri di controllo democratico, diventano uno strumento facile per adottare politiche impopolari.
Per quanto possa apparire paradossale, è un fatto che il mondo conservatore abbia capito meglio di chiunque altro due delle lezioni fondamentali insegnate dalla teoria marxista: la prima è che se si vuole essere forti bisogna organizzarsi internazionalmente, la seconda è che se si vuole essere efficaci occorre combattere sul terreno dell’egemonia culturale. In questo senso non ci si può aspettare che la sinistra portoghese, ora, o quella greca e irlandese prima, riescano da sole a vincere le loro battaglie. Fino a che le sinistre non riusciranno a darsi una forte organizzazione unitaria quantomeno a livello europeo saranno sempre perdenti, anche quando, come in Portogallo, sono in grado di mobilitare e di ottenere consistenti successi elettorali.


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Sono un babbeo, non è un privilegio lasciare il lavoro dopo 40 anni

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Ho 57 anni, lavoro dall’età  di 13, il 30 ottobre 2013, se sarò vivo, taglierò il traguardo dei 40 anni di lavoro (quelli con copertura previdenziale: poi ce ne sarebbero altri 7 di gavetta, ma tutti e 7 rigorosamente in nero…). Come ogni salariato, ho sempre pagato tasse e contributi previdenziali, senza mai, ovviamente, sgarrare.

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