Addio a don Mazzolari amico dei bimbi soldato

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JUBA (Sud Sudan) — A una settimana esatta dalla proclamazione dell’indipendenza del Sud Sudan, avvenuta sabato scorso, 9 luglio, ieri mattina è morto a Rumbek, una delle città  più importanti del nuovo Stato, l’arcivescovo Cesare Mazzolari, figura storica della regione. Per anni ha lottato con la sola arma della non violenza per l’indipendenza di un Paese che sentiva suo, ha litigato addirittura con dei suoi confratelli che non ci credevano e ha avuto screzi persino con i capi della guerriglia che ha liberato il Paese (il Sudan People’s Liberation Army), quando ha protestato perché arruolavano bambini soldato che è andato a liberare dall’uniforme. Senza parlare delle risse con i dirigenti islamici del Nord Sudan (quando i due Paesi erano uniti) che accusava di praticare lo schiavismo sui neri del sud. Ieri l’ha stroncato probabilmente un infarto del miocardio.
Racconta fratel Don Bosco Ochieng che dirige la radio diocesana Good News e ha assistito alla morte di Mazzolari: «Il vescovo stava concelebrando la messa delle 8 del mattino assieme a un altro sacerdote, Justin Atit, direttore dell’organizzazione umanitaria “Healing the Healers”(Guarire i Guaritori), ed era arrivato al momento dell’eucarestia. Si è portato le mani al petto e si è accasciato su una sedia lì accanto. La testa è ciondolata al di là  della spalliera. Faceva fatica a respirare» .
È stato chiamato un dottore che l’ha fatto portare in ospedale ma ormai non c’era più nulla da fare. Monsignor Mazzolari aveva 74 anni ed era nato a Brescia. Missionario comboniano subito dopo essere stato ordinato sacerdote aveva passato alcuni anni tra gli indios in Messico e poi tra i disperati immigrati di Cincinnati. Era stato poi destinato in Sud Sudan e lì ha passato gli ultimi trent’anni della sua vita. Sostenitore dell’indipendenza del Paese aveva comunque dato la priorità  ai bisogni della gente violentata da una guerra che non sembrava dovesse avere mai fine. Gli accordi di pace del 2005, che prevedevano un referendum sull’indipendenza del Paese, lo avevano fatto gioire. Ciononostante aveva ben presente i problemi cui il nuovo Stato sarebbe andato incontro. «Siamo alla fine di un percorso che prevede un inizio — aveva commentato preoccupato —. La costruzione di questo Paese che tra l’altro rischia ancora di precipitare in un’altra guerra civile. Prego in continuazione che ciò non accada e solo se arriveranno aiuti massicci potremo sperare di farcela» . Parlava in prima persona, come uno di loro, un sudanese del sud perché in realtà  si sentiva parte di quel popolo martoriato e trafitto da una storia crudele che l’ha costretto all’età  della pietra o giù di lì.
«Quando parlo di aiuti non intendo solo cibo e medicine. Occorre creare una nazione che non c’è. Tecnici, amministratori, operai. Qui sono pochissimi quelli che sono andati a scuola, hanno studiato, sono in grado di costruire l’ossatura di uno Stato. Occorre ridare quella dignità  che ci è stata rubata. Comunque senza pace sono tutti traguardi difficili da raggiungere. La prima lotta quindi è per la pace» . I funerali si svolgeranno giovedì e «il nostro amico Cesare» sarà  sepolto nella cattedrale di Rumbek, come aveva chiesto lui stesso.
Sarà  presente una delegazione proveniente da Brescia e il presidente della Conferenza episcopale sudanese, il cardinale Gabriel Zubeir Wako.


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