La manovra dei rinvii che inquieta i mercati

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Una tassa sulle spalle del contribuente italiano a vantaggio soprattutto di investitori esteri. Se non vogliamo pagarla e magari vederci presentare un conto ancora più salato, abbiamo una strada obbligata da percorrere: essere credibili nel rispettare gli impegni di rientro del debito che abbiamo preso. Il nostro governo ha voluto nei mesi scorsi prendere impegni ancora più stringenti rispetto a quelli che ci venivano richiesti in Europa. Si è dato l’obiettivo ambiziosissimo di portare il bilancio in pareggio entro il 2014. Bastava per l’Europa un aggiustamento inferiore, di circa 15 miliardi in meno. Ma da allora tutti coloro che contribuiscono a formare le opinioni degli investitori (Ocse, Commissione europea, Fondo monetario, agenzie di rating) ci chiedono di chiarire come compieremo questo virtuosismo. E ogni ritardo nell’offrire questi chiarimenti ci costa.
La manovra varata dal governo e poi più volte rivista in quest’ultima settimana non basta a centrare quell’obiettivo. Ci assicurerà  25 dei 40 miliardi richiesti e di questi solo 6 prima della fine della legislatura. Gli altri 15 miliardi verranno trovati nella legge delega sulla riforma fiscale, i cui effetti si faranno sentire rigorosamente solo dal 2013 in poi. Quindi c’è un rinvio (la definizione dei provvedimenti che dovranno non solo offrire copertura alla riforma fiscale, ma anche migliorare i saldi per quasi un punto di Pil) nel rinvio (il fatto che l’onere politico di queste misure ricadrà  su governi successivi anche se questo esecutivo restasse in carica fino alla fine della legislatura). Forse è anche per questo che gli investitori non sembrano affatto rassicurati. Si ricorderanno di quanto è successo con lo scalone sulle pensioni votato da una legislatura per essere attuato in quella successiva e, alla fine, smantellato dall’esecutivo successivo. E si ricorderanno di quante deleghe fiscali siano rimaste lettera morta: questa, poi, è un copia-incolla, peraltro fatto male, di quella del 2003 (provare su www. lavoce. info per credere).
Ma c’è un altro aspetto di questa manovra che non può che destare preoccupazioni. È una manovra, per quanto si riesce fin qui a capire dai documenti del governo, fatta per due terzi di entrate aggiuntive e solo un terzo di tagli di spesa. Le maggiori entrate potrebbero contare ancora di più perché gli enti locali (che devono contribuire per quasi 15 miliardi alla manovra), probabilmente alzeranno le tasse a livello locale per compensare i minori trasferimenti ricevuti dal governo centrale. Del resto avendo scelto di far ricadere quasi tutto l’onere dell’aggiustamento sulla spesa non pensionistica (che pesa per quasi il 40 per cento della spesa corrente ma contribuirà  meno dell’1 per cento alla manovra) non c’era alternativa che alzare le tasse. Un aggiustamento tutto incentrato sulla spesa avrebbe comportato tagli del 12 per cento di tutte le altre spese primarie, quelle in cui già  oggi spendiamo molto di meno che gli altri paesi europei, come a suo tempo sottolineato su queste colonne. La concentrazione della manovra sul lato delle entrate non può che avere effetti negativi sulla crescita: la storia ci insegna che i rientri del debito riescono quando comportano soprattutto riduzioni di spesa, invece che aumenti di tasse.
Per aumentare le entrate, viene introdotta una lunga serie di nuovi balzelli, tra cui la patrimoniale sulla ricchezza mobiliare efficacemente descritta ieri da Luigi Spaventa su questo giornale. Da sola porterà  a 3 miliardi e mezzo nel 2013, un sesto della manovra prevista per quell’anno. È una tassa che colpisce soprattutto i piccoli risparmiatori perché preleva un ammontare fisso di fatto azzerando i rendimenti netti di un investimento di 30 milioni in titoli di stato. Si mettono, in altre parole, pesantemente “le mani nelle tasche”, meglio direttamente nei portafogli (titoli) degli italiani, scoraggiando non solo gli acquisti di titoli di Stato, ma anche investimenti che potrebbero far affluire risorse alle nostre imprese. Colpiscono soprattutto i più poveri anche le tante tasse sui giochi introdotte nella manovra: valgono circa mezzo miliardo.
Anche sui tagli di spesa la logica è quella del “ciapa chi ciapa là “, tante piccole operazioni che tagliano tutte qualcosina contravvenendo a tante promesse e quindi riducendo il rapporto di fiducia fra il cittadino e lo Stato. Il caso più emblematico è quello delle pensioni. Dopo le ultime modifiche porterà  a risparmi netti (al netto delle tasse versate dai pensionati) di circa 300 milioni. Viene da chiedersi se valeva la pena di contravvenire alla promessa di non toccare le prestazioni in essere per raccogliere una somma relativamente così contenuta.
I più realisti del re sostengono che era difficile aspettarsi di più da un governo così litigioso. Sarà . Certo che grandi responsabilità  per le sorti del nostro Paese gravano oggi sull’opposizione. Che non può tirarsi fuori. Dire solo che bisogna cercare di crescere (cosa di per sé vera) oppure opporsi ad ogni intervento senza proporre alternative condanna tutti, compresa un’eventuale nuova maggioranza che venisse dopo le elezioni, a dover passare la prossima legislatura a riparare i guasti prodotti in questo scorcio finale di Berlusconi IV, vanificando anche quanto di buono fatto in precedenza. Ci sono tante riforme per la crescita a costo zero che possono essere proposte. Ci sono interventi tutt’altro che simbolici, nei loro effetti sulla finanza pubblica, che potrebbero portare a veri tagli nei costi della politica. Due terzi dei nostri Comuni hanno meno di 5000 abitanti. Abbiamo sindaci di 83 cittadini, praticamente un consiglio di classe allargato. Ci sono poi interventi difficili, ma che, se congegnati bene, darebbero più stimolo alla crescita migliorando la finanza pubblica. Perché ad esempio non aumentare fin da subito le aliquote sulle rendite finanziarie e abbassare quelle sui depositi bancari portandole ad un livello uniforme, anziché affidare tutto questo a una legge delega? Perché non armonizzare l’età  di pensionamento delle donne nel privato a quella del pubblico fin da subito, anziché aspettare fino al 2020? Perché non rivedere le regole di indicizzazione in linea con quanto avverrà  col contributivo, quindi con il metodo con cui verranno pagate le pensioni ai figli degli attuali pensionati? Legando l’indicizzazione delle pensioni alla crescita dell’economia avremmo anche un elettorato più interessato all’andamento della nostra economia, attento ai figli nella sfera pubblica e non più solo in quella privata.


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