La nuova guerra di frontiera

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 Torna incandescente la situazione in Kosovo, autoproclamatosi indipendente nel febbraio del 2008 e non riconosciuto dalla Serbia, che la considera ancora una sua regione.

Unità  delle forze speciali di polizia di Pristina hanno tentato di prendere per la prima volta in grande stile in controllo dei cosiddetti «valichi di frontiera» con la Serbia di Brnjak e Jarinje, nel nord del Kosovo. La popolazione serba, quella rimasta dei 200mila fuggiti nel terrore subito dopo la guerra della Nato, è scesa subito in strada con forti proteste. In molte enclave, a Rudare, a Leposavic e a Zubik Potok sono stati fatti blocchi stradali per impedire il passaggio dei militari kosovaro-albanesi. Duri scontri si sono svolti nella notte tra il 25 e il 26 e un agente albanese è rimasto ucciso da un colpo di arma da fuoco. La Kfor-Nato è intervenuta ottenendo il ritiro delle unità  speciali di Pristina. Ma i blocchi stradali sono proseguiti anche il giorno successivo.
Poco prima di far intervenire le forze speciali, il premier Hashim Thaqi aveva destituito, senza apparente motivo, il capo della polizia kosovaro-albanese Reshat Maliqi, considerato un interlocutore affidabile dalla missione Eulex dell’Unione europea. Che, anche stavolta, ha condannato il tentativo di forza per riconquistare il nord, dove vive la più forte comunità  serbo-kosovara, all’autorità  centrale dello «stato» del Kosovo che la Serbia non riconosce e tantomeno i serbi del Kosovo. Catherine Ashton, capo della diplomazia europea, ha condannato come inaccettabile «ogni violenza», ma Fernando Gentili, l’italiano diventato Alto rappresentante per la comunità  internazionale del Kosovo, ha dichiarato che l’azione della notte tra il 25 e il 26 «è stata fatta senza consultare la comunità  internazionale e l’Unione europea non l’approva». Ora appare chiaro che la destituzione del capo della polizia Maliqi è legata proprio ad un dissenso interno al governo di Pristina, sull’opportunità  dell’iniziativa armata nel nord.
Sul campo il clima è rimasto arroventato, al punto che mercoledì 27, quando si è sparsa la notizia di un nuovo intervento delle forze speciali di Pristina, centinaia di giovani serbi provenienti – secondo informazioni di fonte Unmik – per la maggior parte dalla città  a maggioranza serba di Kosovska Mitrovica hanno dato l’assalto alle strutture dei due posti di frontiera, distruggendo tutto e mettendo in fuga, pare con colpi di arma da fuoco, anche il presidio Kfor-Nato di soldati polacchi.
Per il premier Thaqi non si è trattato di una azione «contro i serbi», ma «per riportare ordine e legge» nel nord, di fatto fuori dall’autorità  di Pristina. Come se non sapesse che quella regione resta la parte contesa e calda della crisi kosovara. Il presidente serbo Boris Tadic ha chiesto la convocazione urgente del Consiglio di sicurezza e, più rivolto alla comunità  internazionale che a Pristina, ha ricordato che Belgrado «non vuole un nuovo conflitto» e per questo lavora perché ogni passo serbo sia «diplomatico», con chiaro monito anche alle comunità  serbo-kosovare.
L’innesco apparente della nuova «guerra delle frontiere» balcanica, sembra essere la decisione presa dal governo di Pristina il 20 luglio scorso di reagire con un embargo contro le importazioni dalla Serbia (una decisione pesante, se si considera che la maggior parte dei beni, a partire dall’elettricità , arrivano dal territorio serbo), dopo la decisione di Belgrado di non riconoscere i visti doganali della Repubblica del Kosovo, perché questo avrebbe voluto dire riconoscere di fatto l’esistenza della nazione del Kosovo come altro da sé. Se l’operazione militare verso il nord è stata decisa unilateralmente da Hashim Thaqi, quella «amministrativa» di dare il via all’autorità  doganale del Kosovo non può invece non essere stata incoraggiata internazionalmente. Dall’Unmik-Onu, dall’Eulex, dalla Nato? Troppe sono le missioni arrivate a contraddirsi in questa terra, ma tutte impegnate a proteggere, senza sapere come e perché, l’unico «stato» al mondo nato grazie ai bombardamenti aerei dell’Alleanza atlantica.
C’è però un altro motivo nascosto che ha spinto Hashim Thaqi a prendere l’iniziativa, come forma di ricatto internazionale. La consapevolezza del suo forte isolamento, interno e anche tra i protettori del mondo. Soprattutto dopo la recente decisione della missione Eulex di formalizzare l’inchiesta, che lo chiama in causa, per crimini di guerra e contro l’umanità  in relazione alla sanguinosa vicenda dei trapianti di organi. Quando, nel giugno 1999, unità  dell’ex Uck alle dipendenze di Hashim Thaqi sequestrarono centinaia di civili serbi e albanesi «collaborazionisti», imprigionandoli nel nord dell’Albania, sottoponendoli a tortura e poi espiantando loro organi vitali utilizzati per «finanziare» la milizia armata. Questo efferato delitto chiama a responsabilità  proprio il premier kosovaro-albanese. Finora taciuto e nascosto, questo crimine è diventato anche motivo di contesa delle corti internazionali. A chiedere l’incriminazione di Thaqi ora è addirittura l’ex procuratrice del Tribunale dell’Aja Carla Del Ponte che giudica negativa e senza poteri effettivi l’indagine di Eulex e chiede invece la costituzione di una commissione inquirente delle Nazioni unite.
Su tutto «vigilano» gli Usa – che hanno di fatto promosso l’elezione a presidente del Kosovo di Atifete Jahjaga, ex vice-capo della polizia e beniamina di Washington – dalla loro mega-base di Camp Bondsteel e dalla statua in bronzo di Bill Clinton che guarda, divertito, i Balcani dalla piazza centrale di Pristina.


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