Pomigliano, nuova Panda e diritti all’americana

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 Pomigliano d’Arco, Michigan. La fabbrica cambia volto, cambia nome e cambia lingua. Se il team leader ti sente nominare la parola «carrello» ti fa una cazziata che te la ricordi. Dolly, si chiama dolly il carrello. Dimentica l’italiano, dimentica anche il napoletano e mettiti in riga. Quando da lontano si vede arrivare il direttore, il capo (pardon il team leader) suona il campanellino: tutti in ordine al proprio posto, contegno e rispetto. Non serve cantare «battiam battiam le mani, arriva il direttor».

Siamo nello stabilimento partenopeo della Fiat dove chissà  da quando si cominceranno a produrre chissà  quante nuove Panda, il primo modello fabbricato in Italia da quando è esplosa la Grande Crisi. Quel che si costruiva a Termini Imerese in uno stabilimento condannato a morte, invece, è volato a Tychy, in Polonia, in cambio dello spostamento della nuova Panda al Gian Battista Vico di Pomigliano. Dove, per rendere possibile il «miracolo italiano», l’amministratore delegato del Lingotto aveva imposto le sue condizioni, come aveva fatto con i sindacati americani, con un referendum-truffa (o voti sì o chiudo la fabbrica) su un contratto che sostituisce quello nazionale di categoria, cancella diritti fondamentali (allo sciopero, alla malattia, alla libera rappresentanza) ed espelle dalla fabbrica i sindacati non firmatari. Questo è successo un anno fa, poi Marchionne ha chiuso la fabbrica e licenziato quasi cinquemila dipendenti, ha quindi riaperto cambiando tutto per non cambiare niente ma adesso è una New.co. Dice che entro il luglio del 2012 riassumerà  il 40% almeno dei licenziati. E gli altri? Dipenderà  dal mercato e dalla piccola Fiat.
Ora sono iniziati i corsi di formazione sul nuovo prodotto e i primi 300 dipendenti della New.co sono al lavoro. Sì, al lavoro e non in aula, su una «pilotina» che è una piccola catena di montaggio manuale della Panda. Il bello è che i 300 restano in cassa integrazione e, grazie a un accordo separato siglato con l’azienda da Fim e Uilm, non hanno diritto all’integrazione salariale. La giornata di lavoro in officina ce la raccontano operai senza nome e senza volto, capirete da soli le ragioni dell’anonimato leggendo questo articolo, «scelti nel perimetro» degli ex operai di Pomigliano.
I primi a tornare in fabbrica sono stati i team leaders, guai a chiamarli capisquadra o capiUte. Caratteristiche: fedeli nei secoli alla benemerita azienda già  torinese, spesso persino più realisti del re nell’imporre le regole, anzi lo stile di vita marchionnesco. I team leaders si scelgono la squadra avendo a disposizione 4.700 nomi e storie. Pescano in tre delle quattro categorie in cui sono idealmente suddivisi da un’azienda che parlerà  pure americano ma ha ripreso l’antico vizio vallettiano dello spionaggio per sapere che fa e con chi l’operaio, anche quando è in malattia per verificare che non esca da casa per comprare le sigarette o alzare le serrande del negozio della moglie. Nella categoria A ci sono quelli di cui ci si può fidare, non perché siano i migliori nella loro mansione ma perché si fanno i fatti loro e di sindacati non ne vogliono sapere. Nella categoria B sono inquadrati iscritti e simpatizzanti dei sindacati complici dell’azienda, Fim, Uilm, Fismic e Ugl. Nella categoria C ci sono gli operai poco affidabili perché magari partecipavano agli scioperi della Fiom. Nella categoria D, infine, ci sono gli appestati, quelli della Fiom e dintorni. Il team leader deve costruire un mix tra gli appartenenti alle prime tre classi operaie e presentare la sua squadra, assumendosi tutte le responsabilità  del caso e rendendosi flessibile e pronto a rimediare a eventuali errori nella scelta della squadra.
Al mattino i nostri ragazzi (la classe operaia di questo stabilimento è molto giovane) entrano senza «marcare» il cartellino. Prima domanda di un operaio restio all’inglese, a chiamare dolly il carrello e abituato a bestemmiare in napoletano: ma se mi faccio male sul lavoro, che succede, che garanzie ho? Troppe domande ragazzo, stai preoccupato. E dire che non dovrebbe meravigliarsi questo giovanotto che è già  stato sottoposto a un test attitudinale con domande del tipo: quanto tieni all’azienda? Quanto sei disposto a sacrificare per il suo bene? Un team è un team, bisogna condividere tutto, fatica e entusiasmo. A mangiare e bere si va insieme al capo, persino per fumare si forma il codazzo. L’azienda sei tu, l’azienda siamo noi. E a pisciare si può andare da soli o sempre in team? Attenzione, i bisogni fisiologici vanno rispettati ma senza esagerare, un paio di volte a turno. E se ho la prostata e devo pisciare più spesso? Vuol dire che non sei idoneo a questo lavoro.
Non è facile fare il team leader, uno stress pazzesco. Devi occuparti di tutto, anche dei sentimenti e dei sogni dei tuoi operai, devi persino ricoprire con lo scotch il display del telefonino per evitare foto e riprese degli interni dell’officina. E tra i suoi compiti c’è anche quello di avvisare tutti con tre scampanellate quando vede in lontananza il direttore che si avvicina, così dà  la sveglia in modo che ogni cosa e ogni uomo siano in ordine e in regola per l’ispezione. Ogni tanto qualche team leader scoppia, non ce la fa più e allora le gerarchie lo tolgono da quel posto delicato e lo spostano a Torino, o a Melfi, o chissà  dove, qualcuno semplicemente se ne resta a casa in cassa integrazione, naturalmente a disposizione dell’autorità  costituita.
Otto ore senza certificazione e dunque senza garanzie, pagati al 60% per via della cassa integrazione e della non prevista integrazione salariale. Per dire signorsì, perché è per il bene dell’azienda e dunque tuo che in essa ti identifichi. Se si accumulano ritardi sul programma produttivo, il team leader va in tilt, e se se ne accorgono le gerarchie gli fanno il culo e allora lui impone un’accelerazione dei ritmi per recuperare il lavoro perduto. Ma se il ritardo non dipende dagli operai ma da guasti, inefficienze, problemi tecnici, errori di programmazione? Pazienza, zitto e accelera, la catena non si ferma, non c’è ragione.
Domanda: può funzionare un sistema come questo? Può funzionare sotto il Vesuvio? Chi ti garantisce che quegli sfaccimma in tuta non si mettano a suonare la campanella anche quando non arriva il direttore? Ce li vedete voi a trattenere il respiro e la vescica per evitare di essere colpiti come inidonei? Forse anche Marchionne sa che non può funzionare. Forse l’Eroe dei due Mondi cerca solo una scusa per dire che in Italia non si può investire perché è un paese inaffidabile e tali sono i suoi lavoratori. Forse Marchionne sta solo aspettando la sentenza di domani del giudice torinese sulla legittimità  del modello Pomigliano.

PANDA GRANDI NUMERI

Nei piani Fiat, la fabbrica di Pomigliano avrà  una capacità  produttiva per la nuova Panda fino a 280.000 unità  all’anno. L’anno scorso, la Panda seconda generazione ancora in servizio è stata venduta in 246.000 unità  in Europa, dopo il picco di 309.000 del 2009 grazie agli incentivi alla rottamazione in molti paesi. Finora sono state 2 milioni le Panda prodotte, 6,5 milioni dalla prima del 1980.


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