“Noi marchi indipendenti rischiamo la bolla editoriale”

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Pubblicare meno, pubblicare meglio. L’idea di “decrescita felice” è stata lanciata da un editore di medie dimensioni e di riconosciute qualità  come minimum fax: la settimana scorsa, sul blog letterario Minima&Moralia, Marco Cassini è intervenuto in una discussione che da diversi giorni verteva sulla legittimità  di quel “publish or perish”, pubblicare di più per sopravvivere, che è stato il motto anche dell’editoria italiana. Il risultato è nei circa 60.000 titoli che ogni anno invadono le librerie. Più di 160 al giorno, in un paese dove i lettori scarseggiano. La conseguenza, denunciata da Giuliano Vigini sull’Avvenire, è che per alcuni editori la resa media dell’8% è salita al 30%. In altre parole la vita dei titoli in libreria è minima. Come conferma Stefano Verdicchio di Quodlibet: «I distributori mi hanno detto che ormai le grandi librerie tengono le novità  per un mese». E questo tema, così come la riflessione, colpisce soprattutto gli editori medi, quelli che stanno tra i 30 e i 60 titoli l’anno. Quelli che non hanno grandi gruppi alle spalle o bestseller salva-bilancio.
«Capitalismo da straccioni», commenta Sandro Ferri di E/O che spiega come funziona il mercato: «Noi editori, tutti, facciamo titoli che perdono soldi nell’ottanta per cento dei casi, e lo sappiamo in partenza. Ma intanto li facciamo uscire, perché librai e distributori li pagano: quando ci sarà  la resa, gli ridarai i soldi, ma intanto hai tra le mani un flusso di denaro. Perché lo facciamo? Per avere visibilità , in parte. I grossi editori prendono sempre più spazio in libreria: e se usciamo con trenta titoli abbiamo più possibilità  di farci vedere. E perché ci facciamo ingannare da un’illusione». «Un’illusione che è un castello di carte – incalza Daniela Di Sora di Voland – perché se non posso fare il numero di libri previsto per bilanciare le rese di quel determinato mese, ecco che il castello crolla. Viviamo in una perversione: ci sono tanti titoli che avrebbero bisogno di tempo ma oggi i libri sono diventati beni come gli altri e si restituiscono senza dar loro una chance».
Ma pubblicare meno, par di capire, non è sufficiente. Riflette Lorenzo Fazio di Chiarelettere: «La decrescita ha senso e penso che prima o poi anche i grandi gruppi editoriali dovranno prenderla in considerazione. Si tende a pubblicare di più perché statisticamente è più facile imbroccare il titolo che vende. Quando lavoravo presso Rizzoli, l’amministratore delegato spingeva ad aumentare la produzione perché le novità  erano poche rispetto a quelle di Mondadori. La decrescita ha un rischio: i criteri. Temo che si sceglierebbero solo i libri che possono andare in televisione». Stefano Verdicchio allarga il dubbio: «La mia paura è che chi decresce ottiene solo uno spazio ancora più piccolo sugli scaffali, e si dà  la zappa sui piedi».
È un effetto domino: la questione ne apre altre, a catena, e rivela un mondo editoriale sotto pressione. Il problema degli spazi a pagamento, per esempio. Sandro Ferri si infervora sui cataloghi delle librerie Mondadori, con i rappresentanti che, depliant alla mano, offrono soluzioni di esposizione a prezzi variabili: «pila singola, doppia, tripla, altarino, vetrina», commenta amaramente. E’ vero, ciclo del libro e rese sono solo una spia, riflette Carmine Donzelli: «Marco Cassini mette in rilievo il carattere diabolico di un sistema che si dibatte sotto l’egida delle presunte pretese del mercato, e che mina anche la migliore volontà  di costruire una logica editoriale. Siamo tutti presi nel meccanismo al punto di tradire le nostre premesse».
Dunque, l’autocritica viene accolta? «Sì, nel senso di alzare la soglia del rigore e della responsabilità : in poche parole, è giusto selezionare con maggiore attenzione i testi. Ma nessun buon esempio può sortire effetto se non ci si danno regole. Non esistono vincoli alla restituzione del libro al prezzo pieno pagato dal libraio. Non c’è nessuna regolamentazione delle rese. E non siamo mai riusciti ad avviare una discussione vera su una legge sul libro. Quella attualmente in discussione sugli sconti si occupa del cinque per cento del problema. Siamo riusciti, noi editori che convergiamo nei Mulini a Vento, a far correggere un punto deludente solo perché anche i grandi editori hanno capito che la troppo rigida difesa della libertà  di applicazione dello sconto si sarebbe ritorta contro di loro, aprendo a interessi ben più consistenti. Quelli di Amazon».
Già , Amazon. Il mega-distributore (e forse colossale editore, dal momento che in America sono cominciate le assunzioni di editor e sono iniziati i contatti con gli agenti europei per tradurre direttamente i titoli più venduti) è il vero spettro dell’editoria italiana. Amazon è il motivo per cui Giuseppe Laterza si dichiara non convinto dalla proposta di Cassini: «Il numero dei titoli, in sé, non è positivo né negativo. E’ una richiesta di pluralismo avere tanti titoli. Semmai, il problema è nella struttura distributiva, non nella quantità  di libri pubblicati. Dunque, sta nella crescente concentrazione della distribuzione: e la più grande è Amazon. Al di là  del segnale richiesto da Cassini, l’obiettivo è una vera legge sul libro, che tuteli il pluralismo delle idee e delle offerte, e che eviti la concentrazione sia nei titoli che nella distribuzione. Faccio un esempio. La catena inglese di librerie Waterstone è stata venduta a un magnate russo, Alexander Mamut, che ha scelto per dirigerla il più intelligente libraio indipendente d’Inghilterra. Nella sua catena, niente sconti e politica di catalogo: quando esce un romanzo della Rowling, non riempie tutto lo spazio a disposizione, ma ne ordina poche copie e poi rifornisce. L’obsolescenza della nostra politica dissennata va combattuta puntando sulla qualità  dei librai, e non sulla vendita immediata dei titoli. Spero che l’esempio inglese sia il primo segnale di un’inversione di tendenza».


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