Ferragosto nero come il cuore

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«Teresa, ma questo è stadio?». Josef, che in cinque mesi in Italia ha imparato sette parole tra cui «stadio», ha una faccia che se ne sta indecisa tra il punto interrogativo e quello esclamativo. Ne ha viste un sacco di cose, Josef da quando è nato, in Ghana, una trentina di anni fa, ha visto ammazzare suo fratello per un faida interna al suo clan, ha visto la sua casa messa a fuoco, ha visto come è difficile scappare quando tuo cugino ti insegue con un machete. E ha visto come è difficile ricominciare una vita in una altro paese, la Libia, da cui poi ti buttano fuori spingendoti su un barcone assieme ad altre centinaia di «sfigati» come te. Ma, ecco, uno stadio (che poi sarebbe un campo di calcio) senza porte e linea di centro campo, in quel posto civile e calcisticamente evoluto che è l’Italia, non se lo aspettava.
Appurato che quel fazzoletto d’erba bruciacchiata è per lui e i suoi compagni di «sfiga» ferragostana quanto di meglio possa offrire Bologna in termini calcistici, Josef si rassegna, afferra un pallone e tira il calcio d’inizio.
Prendi un uomo, trattalo da bambino, inventagli un’occupazione, più o meno costruttiva, per fargli passare il tempo e non farlo pensare all’ingiustizia della sua vita, ed hai un profugo nell’Italia del 2011. E c’è chi dice: «ma che vadano a lavorare». Infatti ci andrebbero anche, tutti e di corsa, visto che in Libia, da dove i 49 profughi ospitati a Villa Aldini, a Bologna, lavoravano, e che invece qui in Italia il permesso per trovarsi un lavoro non ce l’hanno e devono far passare il tempo prendendo a pedate un pallone per non prendersi a pedate tra loro. Che di rabbia e frustrazione tra questi uomini, improvvisamente degradati a bambini da tenere impegnati, ce n’è anche troppa.
«E’ vero che non possono nemmeno cercarsi un lavoro – spiega Teresa, una volontaria che si danna l’anima per insegnare loro l’italiano e per inventargli qualcosa da fare a Ferragosto, quando Bologna è afosa e svuotata di vita – Devono aspettare di ottenere il permesso di soggiorno, per motivi umanitari, e poi possono trovarsi un’occupazione».
Un controsenso, visto che le draconiane leggi sull’immigrazione in Italia sanciscono che per avere il permesso di soggiorno prima si debba avere un datore di lavoro che ti firma il contratto. Allarga le braccia, Teresa, davanti all’obiezione. Nemmeno lei riesce a spiegarsi, e spiegare, perché a questi uomini sia negata la dignità  di un lavoro. Anche meno: la possibilità  di cercarselo per mettere in tasca almeno i soldi per le sigarette. Però possono giocare a calcio e farsi delle belle e lunghe passeggiate. A piedi, chiaramente, il biglietto dell’autobus costa un euro e mezzo e loro non ce l’hanno. Se li fermano è un disastro, rischiano di vedersi bruciare la possibilità  di rimanere in Italia per avere fatto i portoghesi. Quindi camminano e giocano a calcio e ricevono occhiatacce dai bolognesi accaldati e grassi di vita. Talmente grassi da avere dimenticato che da qualche parte, qualche nonno, zio, prozio, antenato un po’ di miseria se la deve essere fatta. Tanto grassi da avere sporto denuncia alla Polizia perché qualcuno di questi 49 poveracci ha avuto il barbaro coraggio di fregare un paio di pesche da un albero in cui le pesche sono ornamento per ricchi occhi e non cibo per stomaci vuoti. «Hanno la piscina – dice un operatore della cooperativa Indaco che gestisce il centro di accoglienza di Villa Aldini – e intorno hanno questi alberi da frutto. Non vogliono essere disturbati, lo so che è ingiusto, ma cosa possiamo fare? Questi rubano e poi arriva la Polizia. Noi abbiamo regole rigide, ma è difficile farle sempre rispettare». E capirai se due pesche, ma anche 200, fregate per fame sono roba da denuncia. «Sì, visto che siamo stati denunciati». Il benessere nella città  grassa, e rossa per inciso, ha buttato in cantina il cuore e spinto in fuori la pancia.
Bologna carogna: ai 49 esseri umani manca tutto. Non hanno spazzolini da denti, dentifricio, schiuma da barba. Non hanno nemmeno il sapone per lavarsi. Bisogna fare la colletta tra i volontari, la Protezione civile, che spende 40 euro al giorno per ogni profugo, di fatto paga per pranzo, cena e operatori della cooperativa che gestisce il centro di accoglienza. Stop: il resto sta al buon cuore della gente. Che se è la stessa che ti denuncia perché gli hai fregato le pesche, ti tocca rassegnarti a essere sporco e prenderti pure le occhiate schifate, di quelli che ti hanno denunciato, perché puzzi.
Ma poi c’è il calcio, ci sono i Giardini Margherita e lo «stadio» che si improvvisa e che per un paio d’ore svuota il cervello di Josef e dei suoi compagni di squadra e di «sfiga». Arrivano dal Gahna, come Josef e come Thomas che non può tornare nel suo villaggio perché ha rifiutato di prendere il posto del padre come stregone («io sono cristiano») e se ci rimette piedi il comitato d’accoglienza gli stacca la testa a colpi di machete. E arrivano dal Bangladesh, dal Ciad, dalla Tunisia, dalla Sierra Leone: arrivano dai posti più poveri dell’Africa e dell’Asia. Oggi sono a Bologna, ieri a Lampedusa, l’altro ieri erano in Libia dove hanno vissuto parte della loro vita, lavorando, non giocando a calcio come bambini in gita scolastica. «Ma poi c’è stata la rivolta – dice in inglese Josef – Io volevo restare, avevo il mio lavoro e la mia casa e la mia famiglia, là . Un giorno la polizia mi ha fermato e poi mi ha costretto a salire su un barcone. Io non volevo, io non volevo venire in Italia. Io volevo stare in Libia, avevo la mia vita là . Ma mi hanno minacciato e fatto salire su questa barca, mi hanno portato via i soldi che avevo in tasca e il cellulare e dopo quattro giorni sono arrivato a Lampedusa, non sapevo nemmeno dov’ero. Io non volevo venire qui». Josef, e come lui tanti altri, sono la promessa mantenuta dal Colonnelo: «vi riempirò l’Italia di negri», aveva detto. Lo ha fatto vomitando via i suoi immigrati: carne da macello, in Libia, in Italia. Ovunque.


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