Il micro-blog che fora la grande muraglia

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 PECHINO.La «bomba chimica» alle porte di una metropoli di 6 milioni di abitanti è stata disinnescata dalla protesta popolare. Il governo ha ceduto alle pressioni dei manifestanti e chiuso la «Fujia», una fabbrica di paraxilene (PX) nella quale i dimostranti vedevano una terribile minaccia per Dalian, città  portuale nella Cina nordorientale.

La mobilitazione dei cittadini era cominciata lunedì 8 agosto, quando il passaggio del ciclone Muifa aveva danneggiato la diga eretta dalle autorità  a protezione dell’impianto, in grado di produrre ogni anno 700 tonnellate di PX, utilizzato in vernici e materie plastiche. L’allarme della popolazione era stato lanciato attraverso i weibo, i micro blog dell’internet cinese: la rottura della barriera può aver causato la fuoriuscita (circostanza smentita dalle autorità ) della sostanza chimica altamente tossica.
Entrata in funzione due anni fa, la «Fujia» – riferisce l’agenzia di stampa Xinhua – ogni anno paga all’amministrazione di Dalian tasse per 2 miliardi di yuan (217 milioni di euro). Per questo domenica scorsa il segretario locale del Partito comunista (Pcc) Tang Jun e il sindaco Li Wancai avevano provato a calmare i dimostranti, riuniti dalle 10 del mattino davanti alla sede del governo, promettendo di spostare lo stabilimento. Ma la folla, decine di migliaia di persone come testimoniano i video pubblicati anche su YouTube (www.youtube.com/watch?v=vk0K3w69cSY), non si è accontentata di garanzie giudicate troppo vaghe. Tantissimi (e organizzati) i giovani, che indossavano magliette con l’immagine di una bomba con la miccia accesa e l’invito «PX out!». «Amo Dalian, odio il veleno» e «Fuja vattene!» alcuni tra gli slogan più gettonati. Armati di macchine fotografiche digitali e telefonini, hanno «postato» sui weibo le immagini della protesta. Alle 4 del pomeriggio, con il pacifico assedio in piazza del Popolo che non accennava a smobilitare, al sindaco non è rimasto che annunciare l’immediata chiusura della «Fujia».
Li Chengpeng, blogger e scrittore divenuto popolare (sui micro blog lo seguono oltre 2 milioni di persone) per le sue inchieste sul terremoto del 2008 nel Sichuan, ha commentato così il successo del movimento di protesta: «Ha vinto Dalian, non perché abbiano vinto i funzionari o la pubblica opinione, ma perché era necessario mantenere la stabilità ». Per il Global Times, uno dei giornali più progressisti tra quelli in lingua inglese, che tuttavia si guarda bene dall’esaltare la protesta di massa, «l’incidente ha dimostrato che le richieste della gente vengono considerate seriamente dal governo cinese. Sia il pubblico che l’esecutivo hanno iniziato ad adattare a un periodo più democratico sia il loro linguaggio sia le loro azioni».
Da proiettile a boomerang
«Il treno è andato a sbattere contro qualcosa. La nostra carrozza si è ribaltata. I bambini stanno piangendo. Per favore, Venite ad aiutarci! Fate presto!». L’sos viene lanciato alle 20:47 del 23 luglio scorso da un passeggero del treno D 301 che sul suo weibo si firma Yangjuan Quanyang. Non passerà  alla storia solo come l’inizio del trauma nazionale legato alla scoperta della vulnerabilità  dell’alta velocità , ma anche come l’incipit di una catena di proteste che – partite anch’esse dal web – hanno costretto il governo a una serie di clamorosi passi indietro.
In poche ore il messaggio di Yangjuan, una studentessa sopravvissuta allo schianto col D 3115 (un altro «bullet train») è stato ritrasmesso 100 mila volte e, nelle settimane successive, ha ricevuto 10 milioni di risposte su Sina weibo e 20 milioni su QQ weibo. «Chiunque avrebbe potuto essere su quel treno» ripetevano i blogger, sconvolti dal bilancio delle vittime (40 morti e 200 feriti) e dalle immagini delle carrozze precipitate dal ponte all’ingresso della città  di Wenzhou.
Nati in Cina un paio d’anni fa, nelle ore immediatamente successive allo scontro i micro-blog si sono rivelati un eccellente mezzo d’informazione e catalizzatore di soccorsi. Wu Zhiyong, un reporter di Wenzhou tra i primi ad arrivare sul luogo del disastro, ha inviato gli articoli sul suo weibo utilizzando un telefono cellulare: «Come giornalista ho il dovere di diffondere le notizie al pubblico immediatamente e per me i micro-blog rappresentano lo strumento più conveniente». Richiamate dagli appelli telematici, oltre mille persone sono andate a donare il sangue per i feriti dopo la mezzanotte e le immagini della gente in fila per i prelievi, «postate» sui weibo, hanno richiamato altri donatori.
In un paese in cui Twitter e Facebook sono oscurati (anche se la censura è aggirabile con un po’ di denaro e competenze tecniche), Sina weibo (140 milioni di iscritti), e QQ weibo (200 milioni, in maggioranza giovani) si dividono un mercato, in crescita, di oltre 500 milioni di utenti. Le autorità , nei momenti più caldi delle proteste, hanno censurato anche i weibo, bloccando alcune parole chiave. Il Pcc ha i suoi weibo, incoraggia la nascita di micro-blog «amici» e, recentemente, ha invitato tutti gli alti funzionari ad aprirne uno.
Classe media e arrabbiata
La protesta è esplosa poco dopo il disastro e il governo si è ritrovato sul banco degli imputati, accusato di tentare di «insabbiarne» le cause. Il 24 luglio Yiyi, una bimba di due anni, è stata estratta viva dalle lamiere da un soccorritore fuori servizio, dopo che le operazioni di recupero dei feriti erano state dichiarate ufficialmente chiuse. Wang Yongping, portavoce delle ferrovie, in conferenza stampa ha parlato di «miracolo» e giustificato così l’occultamento di alcune carrozze, prima che le cause del disastro venissero identificate: «I soccorritori hanno deciso di interrarle per facilitare il loro lavoro. Che crediate o no a questa spiegazione, io ci credo». L’altro ieri Wang è stato licenziato. Nei giorni scorsi il Consiglio di Stato – il governo della Repubblica popolare presieduto dal premier Wen Jiabao – è stato costretto ad aggiungere dei membri «indipendenti» alla commissione incaricata di far luce sulle cause dello scontro. I risarcimenti per i familiari delle vittime sono stati aumentati, da 170 mila yuan a 915 mila (circa 100 mila euro). L’andatura dei treni, che aveva eguagliato quella dell’alta velocità  giapponese ed europea, è stata ridotta mediamente di 50 chilometri orari, i prezzi abbassati. Tutto per venire incontro alle richieste di un’opinione pubblica inferocita dalla gestione dell’incidente.
Secondo Ivan Franceschini, curatore del volume «Germogli di società  civile in Cina», mentre le proteste di Dalian sono più legate agli interessi della classe media, il caso del dopo incidente di Wenzhou ha coinvolto strati più ampi della società . «In questo momento si assiste a una tendenza all’apertura e al pluralismo, seguita a una di chiusura, di gelo da parte del regime – dice Franceschini -. Dalian e Wenzhou, dopo mesi in cui abbiamo visto lo Stato arrestare, bloccare, rappresentano due casi di riscossa della società  civile».
Chang Ping, sul South China Morning Post, ha evidenziato il vicolo cieco in cui si troverebbe la classe media, principale beneficiaria della crescita impetuosa degli ultimi anni. «Queste persone non sentono alcuna necessità  di opporsi troppo duramente alle arretratezze del sistema, perché ne fanno parte e il loro successo è una prova del fatto che funziona – sostiene il commentatore -. Ma negli ultimi anni hanno visto che il loro sogno di una vita buona e stabile sta diventando difficile da realizzare. Hanno accumulato del denaro e comprato un paio di proprietà , ma hanno scoperto che la fabbrica della loro società  è lacerata e l’ambiente distrutto».

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Istruzione/ SEMPRE PIà™ DISEGUAGLIANZE
Chiuse le scuole per i figli dei migranti senza residenza

 PECHINO

Migliaia di studenti cinesi figli di lavoratori migranti rischiano di non poter tornare sui banchi di scuola alla ripresa delle lezioni il mese prossimo. Non che prima gli venisse garantito il diritto all’istruzione: la mancanza dell’hukou – il permesso di residenza – per i loro genitori nega anche ai figli, tra l’altro, la possibilità  di iscriversi agli istituti pubblici e l’assistenza sanitaria. Molti migranti sono riusciti però a far frequentare ai loro ragazzi scuole private, per cercare un futuro migliore. Ma ieri l’agenzia di stampa Xinhua ha fatto sapere che in tre distretti di Pechino, il centralissimo Chaoyang, Haidian (dove sorgono alcune delle più importanti università  della capitale) e Daxing sono state chiuse 24 di queste scuole, perché – ufficialmente – non autorizzate o prive degli standard minimi di sicurezza. La misura restrittiva colpisce circa 14 mila studenti.
Xie Zhenqing, a capo di uno degli edifici demoliti, ha detto che i suoi 1400 studenti non sanno più dove andare. «Non so niente di quello che faranno con studenti e docenti, quando la scuola riaprirà , quali piani abbiano. Hanno semplicemente chiuso la scuola», ha dichiarato Xie alla France Presse. Zhang Zhiqiang, fondatore di Migrant Workers’ Friend, ha detto all’Afp che il provvedimento evidenzia la discriminazione esistente nei confronti dei lavoratori migranti e Xinhua ha parlato di un problema che alimenta «tra i cittadini una forte preoccupazione sulle diseguaglianze nell’educazione».
Introdotto nel 1958 come strumento di pianificazione economica (per limitare gli spostamenti dalle campagne alle città ), il sistema dell’hukou prevede l’obbligo per ogni cittadino di registrarsi come residente urbano o rurale. Il permesso di soggiorno per una certa città /villaggio, dà  diritto a usufruire dei servizi essenziali soltanto lì. I milioni di lavoratori migranti che dalle riforme di Deng nel 1978 e ancor più durante il boom degli ultimi dieci anni hanno affollato le metropoli cinesi a caccia di un salario si trovano marginalizzati anche a causa di questo sistema. Si tratta di oltre 200 milioni di esseri umani che costituiscono ormai la metà  della forza lavoro urbana ma che tirano avanti con un salario di 100 euro al mese. Da circa un anno questi lavoratori – impiegati in aziende sia cinesi sia straniere – hanno iniziato a reclamare i loro diritti, come in occasione della recente rivolta a Zengcheng, nella provincia meridionale di Guandong, dove migliaia di migranti si sono scontrati con la polizia accusata di abusi nei loro confronti. Nel marzo dell’anno scorso 13 giornali cinesi pubblicarono un editoriale congiunto chiedendo l’abolizione dell’hukou. E lo stesso premier Wen Jiabao aveva promesso una riforma che però finora non s’è vista. Ma Pechino, dove si stima che vivano e lavorino tra 6 e 12 milioni di persone sprovviste di permesso, ha recentemente introdotto una serie di misure restrittive proprio per ostacolare l’arrivo di migranti.


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