Obama: «Ora i ricchi paghino più tasse»

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NEW YORK — A parole tutti, democratici e repubblicani, vogliono raggiungere un compromesso per evitare di far cadere il Paese nel cosiddetto «precipizio fiscale» dell’aumento delle tasse e dei tagli indiscriminati della spesa che, dicono gli economisti dell’ufficio del bilancio del Congresso, farebbe impennare di nuovo il numero dei senza lavoro e riporterebbe l’America in recessione. Ma sul punto-chiave — l’aumento delle aliquote fiscali per i ricchi — nessuna delle parti è disposta a cedere. E il tempo stringe: l’accordo va raggiunto e trasformato in legge entro 52 giorni, meno di otto settimane. Con in mezzo un viaggio in Asia del presidente, la settimana di interruzione dei lavori per la Festa del Ringraziamento e Natale.
Così il presidente cerca di lanciare una trattativa serrata la cui parte ufficiale, quella visibile, inizierà  mercoledì prossimo con un vertice alla Casa Bianca al quale parteciperanno i capi democratici e repubblicani di Camera e Senato. Tornato a Washington dopo aver festeggiato a Chicago la vittoria elettorale col team della sua campagna, ieri Barack Obama ha rotto un silenzio durato quasi due giorni parlando davanti alla stampa e a un gruppo di cittadini del ceto medio. Un messaggio fermo, il suo: «Sono pronto a negoziare, sarò flessibile, cercherò il compromesso, ma non sottoscriverò accordi che non siano bilanciati e che non tengano conto del fatto che gli elettori, col loro voto, si sono espressi anche a favore di un riequilibrio del carico fiscale».
Di fatto, quindi, siamo apparentemente già  tornati alla vecchia impasse: il presidente ribadisce che considera indispensabile un aumento del prelievo fiscale su chi guadagna più di 250 mila dollari l’anno perché i sacrifici del riequilibrio fiscale non possono gravare solo su un ceto medio già  tartassato e che continuerà  a pagare col ridimensionamento del welfare state. Con un piccolo colpo di scena, Obama propone di ridare un po’ di certezze al sistema economico eliminando dall’orizzonte la minaccia di un aumento delle aliquote su chi ha un reddito annuo al di sotto di quella soglia. E, agitando una penna, scandisce: «Sono pronto a firmare subito una legge che dia certezze sul futuro al 98 per cento degli americani e al 97 per cento delle piccole imprese. In questo modo sarebbe scongiurato il calo dei consumi temuto dagli operatori economici. Poi discuteremo di riforma fiscale e di cosa fare con chi ha redditi più elevati».
Quest’ultima sembra essere più una proposta di bandiera che un’iniziativa destinata a tradursi subito in una legge bipartisan, visto che solo due ore prima della sortita del presidente il capo della maggioranza repubblicana alla Camera, John Boehner, aveva chiesto esplicitamente di escludere l’aumento delle aliquote fiscali anche per i ricchi dal tavolo del negoziato anti «fiscal cliff».
Trattativa già  ad un punto morto, allora? No, semplicemente siamo ancora nella sua fase preliminare, quella nella quale si mostrano le bandiere. Adesso contano soprattutto le coreografie. E qui, se per la sua sortita Obama ha scelto di circondarsi di gente comune di mezza età , tipici esemplari della «baby boom generation», Boehner, che normalmente parla a braccio, per la prima volta ha pronunciato il suo discorso di disponibilità  al negoziato davanti a un «teleprompter», il «gobbo». E ha fatto sapere che il suo discorso, attentamente calibrato e discusso con lo stato maggiore repubblicano, era stato preventivamente inviato anche a Paul Ryan, vice di Romney nel ticket repubblicano, ma, soprattutto, «cane da guardia» del rigore fiscale al Congresso di Washington.
Insomma Boehner, che già  un anno e mezzo fa aveva negoziato un compromesso fiscale col presidente Obama che poi saltò a un passo dal traguardo anche per una mezza rivolta del suo partito, vuole evitare di ripetere quell’esperienza. E ieri ha incassato da Obama la disponibilità  dei democratici a rivedere i meccanismi di spesa dello Stato sociale. Un’apertura ad interventi su quei meccanismi della previdenza e della sanità  che sono destinati a far lievitare nei prossimi anni il debito pubblico: certo non una concessione da poco.
Quanto alle tasse sui ricchi, sarà  braccio di ferro fino in fondo. Ma i «pontieri» sono già  al lavoro. C’è chi propone di riportare al 39 per cento, come ai tempi di Bill Clinton, l’aliquota fiscale massima che era stata ridotta da Bush al 35 per cento, solo per chi guadagna più di mezzo milione o un milione di dollari, anziché i 250 mila indicati dal presidente. Charles Schumer, senatore democratico di New York, va più in là : dice che, se la riforma fiscale proposta dai repubblicani facesse gravare solo sui ricchi la manovra di abolizione delle detrazioni fiscali, i democratici potrebbero anche rinunciare all’aumento delle aliquote.
Massimo Gaggi


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