La marcia (a ostacoli) degli eurobond

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BRUXELLES — Due cose del tutto opposte sono avvenute fra Parigi e Berlino, nelle ultime ore: la cancelliera tedesca Angela Merkel è tornata a scomunicare l’idea degli eurobond, bandendola dal vertice con il presidente francese Nicolas Sarkozy; ma nel partito della stessa Merkel, la Cdu, e in altri partiti e perfino in importanti organizzazioni imprenditoriali tedesche, di eurobond si è parlato moltissimo. Li si è invocati, o quasi: niente più tabù. Perché l’antica tentazione delle obbligazioni comuni garantite dall’Unione Europea, e oggi dall’Eurozona, ritorna: scacciata da tutte le parti, ritorna. Sempre ieri, per esempio, Olanda, Austria e Spagna l’hanno di nuovo bocciata. Ma la Commissione europea ha parlato di «un’idea molto interessante». Quasi vent’anni fa, ancor prima dell’euro, nella visione iniziale dell’allora presidente della Commissione europea Jacques Delors, e poi di Giulio Tremonti, quell’idea era soprattutto uno strumento per finanziare la modernizzazione dell’Unione Europea attraverso le grandi infrastrutture, dai trasporti — come la ferrovia ad alta velocità  Lione-Torino — alle comunicazioni a banda larga. Poi, fu archiviata perché gli Stati temevano di dover allargare il proprio contributo al bilancio europeo.
Oggi, secondo i suoi sostenitori, la proposta avrebbe tre vantaggi immediati: rafforzare la solidarietà  della zona euro, sterilizzare la crisi del debito, tenere a bada la speculazione; gli eurobond permetterebbero ai Paesi in difficoltà  â€” come la Grecia, o il Portogallo — di abbassare il costo del loro rifinanziamento sui mercati: perché dovrebbero pagare meno interessi per farsi prestare i soldi. Ma nello stesso tempo — argomento degli oppositori — gli eurobond danneggerebbero i Paesi più forti, come la Germania, creando l’effetto della «socializzazione del debito» e anche di una minaccia alla sovranità  nazionale: l’«Unione dei trasferimenti», il tener botta ai governi sciuponi, è un classico incubo degli economisti tedeschi. Detto in altre parole: la politica monetaria è comune, ha nome euro, ma i bilanci nazionali sono responsabilità  dei singoli governi, e si traducono proprio nei livelli dei tassi di interesse; più sei conciato male, più devi promettere agli investitori per convincerli a prendere i tuoi titoli di Stato e a prestarti denaro.
Berlino ha anche espresso il timore che il «pronto soccorso» fornito a Grecia o Portogallo riduca per loro gli incentivi a fare vere riforme. E ha invocato il rispetto dei grandi principi comunitari. Che però, da un paio d’anni, sono un po’ scombussolati: a cominciare dalla clausola del «no-bail out», il divieto di salvare uno Stato dell’Eurozona, messa in dubbio dal salvataggio della Grecia.
Molto altro è cambiato negli ultimi giorni. Si scopre che la crescita tedesca è in frenata, le tempeste sui mercati minacciano l’euro. E qualcuno, a Berlino, si chiede per quanto tempo si potrà  resistere nella fortezza, in un paesaggio sconvolto. Per dirla con Anton Boerner, il presidente della potente organizzazione di esportatori Bga: «Qual è l’alternativa? Questa: che i mercati attacchino Italia e Francia, che noi perdiamo la tripla A, e che poi sia il nostro turno… E così finiremmo per pagare il triplo per la crisi. Invece (con gli eurobond) paghiamo una sola volta».
Chi non ha mai mutato idea è proprio Delors, che così spiegava ancora pochi mesi fa, in un’intervista al Corriere: «Le obbligazioni europee devono essere uno strumento per rilanciare l’Europa, finanziando le grandi infrastrutture, la ricerca, la creazione di posti di lavoro. In questa versione rivolta al futuro potrebbero raccogliere l’adesione anche dei Paesi come la Germania, più attenti al rigore di bilancio».


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