L’economia Usa frena ancora ma la Fed resta a guardare

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NEW YORK – E’ ancora più debole del previsto la crescita americana, appena l’1% nel secondo trimestre, ma la banca centrale avverte: non possiamo fare miracoli. La colpa è della politica, questo è il duro messaggio del presidente della Federal Reserve.
Al termine del meeting annuo di Jackson Hole, Ben Bernanke si lancia in una dura requisitoria contro l’azione (o inazione) del governo e del Congresso. Anzi, dei governi. Perché la critica del banchiere centrale investe la linea adottata in tutto l’Occidente, a base di tagli indiscriminati alla spesa pubblica. Un conto è combattere i deficit e debiti pubblici nel lungo periodo, un sacrosanto dovere secondo Bernanke. Altro è far venire meno il sostegno pubblico alla crescita proprio adesso. «La maggior parte delle politiche in favore della crescita – dichiara il presidente della Fed – esulano dai poteri delle banche centrali. C’è bisogno di un sistema migliore per determinare le politiche di bilancio: obiettivi chiari, e meccanismi che li rendano credibili». Bernanke dunque scende in campo in favore di Barack Obama, contro i repubblicani. E’ il presidente degli Stati Uniti a volere una «politica dei due tempi»: subito una manovra per l’occupazione (di cui Obama rivelerà  i dettagli dopo il Labor Day, 5 settembre); poi un percorso credibile e rigoroso di risanamento dei conti pubblici, quando sarà  stato scongiurato il rischio di ricadere nella recessione. Lo conforta anche la direttrice generale del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, con cui Obama ieri ha avuto una lunga telefonata: anche lei è preoccupata del carattere pericolosamente pro-ciclico che stanno assumendo tutte le politiche di bilancio sulle due rive dell’Atlantico, con Europa e Stati Uniti impegnati a tagliare spesa pubblica accentuando così la debolezza della domanda.
Se sulle linee strategiche Bernanke presta man forte a Obama, tuttavia si «chiama fuori» da interventi d’emergenza affidati alla banca centrale. Si era diffusa nei giorni scorsi la speranza che la Federal Reserve potesse tornare a «pompare liquidità » sui mercati. L’ultima volta quel soccorso speciale fu annunciato proprio un anno fa allo stesso meeting di Jackson Hole: la Fed avrebbe inondato l’economia americana con 600 miliardi di dollari di liquidità , dal novembre 2010 al giugno scorso, acquistando titoli del Tesoro sul mercato (il che equivale a stampar moneta).
Era la seconda puntata del «quantitative easing», politica eccezionale varata per sopperire al fatto che il tasso d’interesse zero non basta a rianimare investimenti e occupazione. In tutto, se si includono gli analoghi interventi inaugurati al culmine della crisi nel dicembre 2008, la Fed si è caricata il bilancio di 2.500 miliardi di titoli del Tesoro, immettendo altrettanta liquidità  nel sistema. Con quali risultati? Forse ha evitato una crisi ancora peggiore. Sicuramente ha alimentato varie bolle speculative (oro, Borse emergenti). Non è riuscita invece a rianimare una crescita sana, durevole, capace di riassorbire la disoccupazione. Perché la politica monetaria non è onnipotente, non si può chiedere alla banca centrale di rivestire un ruolo di supplenza di fronte alla latitanza del sistema politico. O, nel caso americano, di fronte allo stallo decisionale che ha fatto sfiorare un default: quando la destra maggioritaria alla Camera ha negato fino all’ultimo un accordo bipartisan con Obama. Da quella destra sono venuti nei giorni scorso attacchi pesanti alla banca centrale. Il candidato alla nomination presidenziale Rick Perry, governatore del Texas, ha definito «alto tradimento» la politica di creazione di moneta da parte della Fed. Attacchi così virulenti – inusitati verso un’istituzione rispettata come la Fed – hanno forse contribuito alla prudenza del banchiere centrale. Che oggi è anche assediato da un dissenso interno: l’ultimo annuncio della Fed, «il tasso d’interesse a quota zero per altri due anni», è stato contrastato e ha visto ben tre pareri contrari all’interno del board. Qualcuno vorrebbe abbandonare presto la politica del credito a tasso zero, per tornare a puntare i fucili contro il rischio d’inflazione. Un rischio che oggi appare inesistente, con una crescita economica così asfittica. Bernanke tiene duro nella sua linea mediana: si è detto «ottimista nel lungo periodo», convinto che «la crescita non è stata intaccata in modo permanente dagli shock degli ultimi quattro anni». E tuttavia ha lasciato la porta aperta per una svolta: la Fed promette che «sarà  fatto tutto il necessario» per evitare una ricaduta in recessione, se la minaccia dovesse confermarsi. Purtroppo non basterà  «tutto il necessario», se altri continuano a latitare.


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