L’eredità  tossica di Bhopal

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Lo ha annunciato martedì il governo indiano, in una risposta scritta a una interrogazione parlamentare. Il ministro di stato per l’industria chimica e dei fertilizzanti, signor Srikant Kumar Jena, ha scritto che la Defence Research and Development Organization, organizzazione scientifica del ministero della difesa ha accettato di occuparsi di smaltire quei rifiuti «in modo appropriato e sicuro» in un impianto inceneritore; l’operazione richiederà  un paio d’anni.
Così Bhopal spera di chiudere con l’eredità  del disastro avvenuto ormai quasi 27 anni fa – forse il più catastrofico incidente industriale nella storia umana, di sicuro per quanto riguarda l’industria chimica. Era la notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984. Nella fabbrica della Union Carbide l’impianto si era surriscaldato e una cisterna esplose lasciando uscire 40 tonnellate di sostanze chimiche, pruincipalmente isocianato di metile. Il gas, «sparato» ad alta pressione, investì in pieno la borgata di Jayaprakash Nagar, proprio di fronte ai cancelli, e altri slum limitrofi. Migliaia di persone sono morte soffocate quella notte stessa – 1.600 secondo il conto ufficiale, quasi 6.000 per le organizzazioni che si occupano delle vittime. Molti di più sono morti nei mesi e anni seguenti, consumati da tumori ai polmoni e altre malattie. I bilancio supera ormai le ventimila vittime. E dopo tanti anni, l’eredità  della gas tragedy resta pesante. Chi è sopravvissuto al gas convive con tumori, malattie respiratorie, nervose. Molti hanno perso i parenti. Nel 1989 il governo dell’India, come unico rappresentante delle vittime in un processo contro Union Carbide accettò un patteggiamento: l’impresa versava 470 milioni di dollari come risarcimento. L’accordo è stato molto criticato. Sia perché il risarcimento era calcolato su 3.000 defunti e centomila sopravvissuti – ma i tribunali hanno poi riconosciuto oltre 574 mila persone «gas affected»: cinque volte di più. Tra il ’95 e il ’96 le vittime riconosciute hanno ricevuto una tantum 15 mila rupie ciascuno, circa 400 dollari di allora. Nessuna pensione per chi era rimasto invalido. Inoltre, con il patteggiamento Union Carbide chiudeva le sue responsabilità : solo più tardi la «Campagna internazionale per la giustizia a Bhopal» ha aperto presso il tribunale di New York una causa legale contro Dow Chemical, che nel 2001 aveva acquisito Union Carbide (escluso però il vecchio stabilimento di Bhopal, che ora appartiene al governo indiano). Di recente c’è stato un tentativo – vano – di riaprire il caso anche presso la giustizia indiana, per le responsabilità  civili e penali dei dirigenti dell’azienda.
Il disastro di Bhopal ha lasciato poi un’altra eredità : tra le carcasse arrugginite infatti restano migliaia di tonnellate di residui tossici esposti alle intemperie, mentre altre tonnellate di reflui sono stoccati in vasche mal isolate. Le sostanze tossiche hanno contaminato i terreni su cui continuano ad abitare centinaia di migliaia di persone, e le falde idriche da cui attingono acqua. Lo hanno dimostrato ormai numerose indagini scientifiche, la più recente quella pubblicata nel giugno 2010 dal National Environmental Engineering Research Institute, autorevole istituzione accademica nazionale. È risultato tra l’altro che tra il 1969 e l’84, durante tutta la sua vita attiva, l’azienda ha sepolto reflui tossici all’interno del suo recinto senza grandi precauzioni: era una fonte di veleno già  prima del disastro. È di questa eredità  di veleni che si occuperà  il ministero della difesa indiano – e chissà  se chiamerà  in causa anche Dow Chemical.


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