«Intifada» sociale a Tel Aviv

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Era dal 1989, dallo smembramento dell’Urss e del blocco comunista, quando è arrivato al culmine un processo cominciato dalla signora Margareth Thatcher in Gran Bretagna e da Ronald Reagan negli Stati uniti, che ci eravamo «abituati» a pensare che c’è un solo sistema che funziona – l’economia di mercato. Negli ultimi 40 anni non avevo mai partecipato a una manifestazione come quella di sabato sera a Gerusalemme – perfino degli agenti di polizia che simpatizzavano con noi! Religiosi, laici, di destra, orientali e non, lavoratori molto semplici, professori univarsitari, cartelli con grande humor e lo slogan, ripetuto, «vogliamo giustizia sociale». Slogan contro le privatizzazioni selvagge, scritte sulle tasse dirette (aumentare!) e indirette (abbassare!). Perfino una scritta inusitata in una città  nazionalista e fondamentalista come Gerusalemme: «ebrei e arabi rifiutano di essere nemici», e «rifiutano di essere schiavi».
I pacifisti e il «libero mercato»
In Israele dalla crisi del 1985 le prescrizioni del fondo monetario internazionale e la concezione fondamentalista del mercato dominano in modo quasi assoluto. Governi del Likud, o laboristi, o entrambi, o di Kadima, via via hanno smantellato gli elementi di welfare state a favore dell’economia di mercato. Privatizzare è stato uno dei dogmi dominanti della chiesa dell’economia di mercato – una chiesa che non ammette dubbio. E insieme, ridurre le tasse – ai ricchi, si intende, come fanno i nostri padroni a Washington – mentre aumentavano sempre di più le tasse indirette. Solo la crisi cominciata nel 2009 ha rimesso in discussione a livello globale alcune delle immagini trionfali di questo sistema che doveva garantire crescita economica mentre nascondeva le diseguaglianze crescenti.
Dopo la guerra del 1967, l’opposizione politica ai diversi governi è passata per un pacifismo spesso molto pallido, ma anche nelle sue versioni più radicali questo pacifismo non si è mai collegato con le questioni economico-sociali. Con poche eccezioni, il movimento pacifista si è allontanato dalla questione sociale – e si è guadagnato l’immagine di «nemico del popolo». Così, per il candidato Benjamin Netaniahu nel 1996 era facile andare a dire agli abitanti delle zone più povere di Israele che il tradimento della sinistra, con la sua (presunta) pace, si traduce nel dare posti di lavoro «agli arabi», «il nemico» (in Giordania o in Egitto), a costo di lasciare disoccupati gli israeliani-ebrei. Il laburista Shimon Peres intanto teneva profique riunioni pubbliche con l’élite imprenditoriale – e ovviamente ha perso le elezioni.
Il Partito comunista israeliano è stato un tradizionale baluardo della popolazione palestinese-israeliana – ma non aveva un vero programma in campio sociale ed economico. La «sinistra» si è manifestata quasi solo sul terreno del conflitto. Sono fiorite invece le organizzazioni non governative – riflesso naturale del neoliberismo. Curiosamente, diverse indagini scientifiche segnalano già  da anni, e numerose, che anche chi vota a destra israeliana nelle sue diverse versioni sarebbe favorevole a uno stato sociale più avanzato.
Negli ultimi anni sono comparse delle alternative alla Histadrut – la vecchia confederazione sindacale, burocratica, che ormai rappresenta un freno alla lotta di classe in Israele. Un esempio si è avuto con il recente lungo sciopero dei lavoratori sociali: la dirigenza sindacale ufficiale ha negoziato con il governo un accordo che ha negato soddisfazione ai lavoratori più giovani e precari, i quali hanno cercato invano di ribellarsi. In altri casi i lavoratori si sono organizzati in sindacati alternativi (che Histadrut odia e considera una minaccia, visto che difendono davvero i lavoratori più vulnerabili).
E poi: privatizzare significa vendere beni pubblici ma anche passare servizi pubblici in mano privata. La terza possibilità  è più sottile: lo stato fornisce meno istruzione, sanità  e così via, e bisogna comprare questi servizi sul «mercato libero». Negli ultimi 20 anni le uniche iniziative di edilizia a basso costo per conto del governo sono quelle dirette a colonizzare i territori occupati, e qui i prezzi sono aumentati in modo smisurato.
La rivolta comincia sotto le tende
Ora a tutti risulta chiaro che l’economia cresce, le esportazioni aumentano, i milionari sono sempre più milionari, gli stipendi aumentano – ma non coprono il costo della scomparsa dello stato sociale. Mentre i prezzi sul «mercato libero» volano.
Finché alcuni giovani si sono riuniti sotto delle tende a Tel Aviv per discutere il problema del caro-alloggi – e in un fulmine la cosa si è estesa in tutta Israele. E dopo la casa hanno cominciato a discutere di istruzione, di sanità , di stato sociale… Il panico è stata tutta la risposta del governo Netaniahu. La destra ha cercato di delegittimare l’onda che però è diventata una marea. A Tel Aviv dopo tre settimane sono diventati 200 mila. A Gerusalemme l’altra sera erano più di 30mila. Quando ha parlato un rabbino progressista, gli applausi e ovazioni di un pubblico giovane ha fatto tremare la strada. Così anche quando ha parlato lo scrittore palestinese-israeliano Said Cashua.
Ottimismo? No, pesottimismo, come scriveva Emil Habibi. La destra già  annuncia terribili pericoli esterni – dalla crisi americana ai «temibili» complotti palestinesi. Né esiste una forza politica capace di offrire una sponda a questa «intifada sociale». però qualcosa qui è cambiato, e la sinistra dovrà  registrare che si può chiedere giustizia sociale, come oggi nelle strade, e questo includerà  giustizia per quanti subiscono il progetto coloniale nei territori palestinesi occupati nel 1967.


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