«Salva i ricchi» E Barack si ritrova l’opposizione in casa

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Nell’aula ancora deserta del Senato, il leader democratico Harry Reid spiega, solo a beneficio delle cable tv e degli stenografi, le ragioni per cui ha accettato questo accordo sofferto e controverso. All’improvviso nei corridoi si crea un ingorgo di uomini della polizia di Capitol Hill e di agenti del servizio segreto.
Passa il vicepresidente Joe Biden: è venuto per incontrare i «caucus» dei due partiti. Cerca di dare una mano ai leader repubblicani e democratici che faticano a convincere i loro parlamentari. Sono guai soprattutto a sinistra. E Obama ha mandato l’uomo che, entrato in Parlamento nel lontano 1972, conosce come nessun altro la lingua e gli umori del Congresso. Ma stavolta è durissima. I parlamentari della sinistra progressista sanno bene che non possono rischiare di mandare il Paese in «default» , ma questo accentua la loro rabbia.
Si sentono trattati come ostaggi da un presidente che li ha sedotti, poi ha sbagliato alcune mosse chiave, infine ha ceduto di schianto ai conservatori. E che ora li mette con le spalle al muro. Prendere o lasciare: se lasci puoi scatenare l’apocalisse finanziario, se prendi tradisci i tuoi elettori e la visione della società  per la quale ti sei battuto finora. In sala stampa i giornalisti parlamentari ti raccontano che quello che ha scritto ieri Maureen Dowd sul New York Times è verissimo: nessuno vuole essere citato per nome, ma sono ormai diversi i deputati «liberal» che sostengono di aver visto «Obama trasformarsi in Jimmy Carter proprio sotto i nostri occhi» . Chi non ha problemi a comparire con nome e cognome è il Nobel per l’Economia Paul Krugman, che nella sua «column» sul New York Times e nel suo blog inveisce da tempo contro i cedimenti al «rigorismo» repubblicano.
Disastrosi, dice, visto che ci spingeranno in una nuova recessione. Dopo l’annuncio dell’accordo, Krugman è letteralmente esploso: «Questa è una catastrofe a testata multipla. Stiamo cedendo a un’estorsione della destra. L’America ha raggiunto lo status di “banana republic”» . Mentre il «caucus» dei parlamentari di colore continua a invitare Obama a rimangiarsi l’accordo, c’è addirittura chi invoca una «rivolta populista» di sinistra per arginare lo straripante populismo della destra (vedi l’articolo della direttrice del The Nation, Katrina vanden Heuvel, sempre sul Corriere di oggi). Intanto la capogruppo dei democratici alla Camera, Nancy Pelosi, dilaniata tra la lealtà  alla Casa Bianca e la sua sensibilità  di leader «liberal» di San Francisco che non condivide una manovra negoziata quasi senza consultarla, dà  libertà  di voto ai suoi deputati: «Tenete presenti le conseguenze di un possibile “default”, ma decidete secondo coscienza» .
 Dalla Casa Bianca il braccio destro del presidente, David Plouffe, replica che le esigenze sociali sono state tenute presenti, che pensioni e sanità  per i poveri non verranno toccate. Ma, come abbiamo raccontato ieri, sono molti i deputati di collegi industriali popolati da un ceto medio impoverito che non sanno come far digerire ai loro elettori una manovra fatta solo di tagli, che non chiede nulla ai ricchi. Poca la comprensione per un presidente che, pure, aveva le mani legate: per alcuni doveva muoversi prima, quando aveva ancora un’ampia maggioranza anche alla Camera; per altri ha poco senso continuare a inveire contro i fat cat, i ricconi che girano sui jet privati, quando poi lasci che la facciano franca.
Per tutti Obama avrà  un percorso molto difficile verso la rielezione. Nei prossimi mesi, con la supercommissione al lavoro, in America non si parlerà  altro che di tagli. Il presidente continuerà  a dire che li accetta ma che non gli piacciono, come ha fatto ieri? È un «distinguo» che, dicono anche molti suoi alleati, non lo salva: «Da noi il “vorrei ma non posso”funziona poco, l’America abbandona i perdenti» .


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