Parlato: la mia Tripoli, in pace anche con gli ebrei

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ROMA — Valentino Parlato, 80 anni compiuti in questo 2011, torna col ricordo a più di sessant’anni fa, al se stesso adolescente iscritto alla scuola italiana. Lo sfondo del ricordo è Tripoli: «Era una stagione particolare, in cui non c’erano divisioni. L’amministrazione britannica aveva permesso che si riaprisse un luogo di istruzione italiano. E lì studiavamo tutti insieme. Noi italiani. Gli arabi. Gli ebrei libici, che erano lì da mille anni. Non c’erano conflitti, non c’erano divisioni. I miei compagni di classe erano, per esempio, i Vaturi, che ora hanno un importante negozio in via del Corso a Roma. Gli Hassan, che credo siano a Milano. Condividevamo tutti insieme il dovere di imparare qualcosa e anche le prime schermaglie amorose…».
Valentino Parlato ha la Libia piantata nel cuore. Quando pronuncia i nomi, la dimestichezza con l’arabo è evidente, com’è ovvio che accada a chi è nato a Tripoli nel 1931 (suo padre era emigrato nel 1926 in cerca di lavoro) e ci è rimasto per vent’anni, fino a quel 1951 in cui venne cacciato come «comunista», circostanza che ancora lo inorgoglisce: «Gli inglesi stavano “ripulendo” la Libia prima di consegnarla al re Idris, proclamato nuovo sovrano. Mandarono via tutti i rompiscatole, quindi anche me. Ritengo tuttora molto bello essere entrato così giovane in un’organizzazione clandestina comunista. Quella scelta ha segnato per sempre la mia vita, e continua a segnarla…». Con Parlato, lo stesso giorno, rispedirono in Italia anche «tre operai, il più ricco notaio di Tripoli e un ufficiale postale».
Ma com’era, Parlato, il clima di quel periodo prima del suo esilio? «I rapporti erano buoni tra tutte le componenti: inglesi, italiani, libici, ebrei. Ma sempre a livello di élite. Non esisteva certo una borghesia libica, mia madre era per esempio amica dei Caramanli, ma si trattava della nobiltà  locale. La massa dei libici erano insomma dei poveracci, dei disgraziati. E bisogna riconoscere che si deve a Gheddafi la nascita di una specie di welfare alla libica, con una certa assistenza sanitaria, diritto allo studio: con lui, Gheddafi, che decideva chi mandare a studiare all’estero… bisogna riconoscerlo, ora che sta finendo tutto e il futuro è incerto».
Il nodo degli ebrei non è secondario, in questo momento in cui Gheddafi crolla e lo scenario in Medio Oriente cambia: «No, non è secondario… Io sono stato testimone di un pogrom ferocissimo. Le truppe inglesi furono comandate in caserma e nelle strade avvenne di tutto, fu atroce, c’era la pressione della vicenda palestinese e della nascita di Israele… Poi gran parte degli ebrei fu cacciata, dopo la mia partenza, ma la decisione fu di re Idris e non certo di Gheddafi». Per questa ragione Valentino Parlato, quando intervistò Gheddafi nel dicembre 1998, gli chiese perché gli ebrei libici non fossero tornati dopo la caduta di re Idris: «E lui mi rispose che a suo avviso sarebbero stati i benvenuti, ma che non era in grado di assicurare la loro incolumità , e naturalmente si riferiva ancora alla questione palestinese».
E adesso, Parlato? «Adesso condivido le preoccupazioni espresse ieri da Sergio Romano sul suo fondo in prima pagina sul Corriere della Sera. Temo molto, in primo luogo, la possibile divisione della Libia tra Cirenaica e Tripolitania, con la Cirenaica più religiosa e la Tripolitania molto meno. Penso all’Egitto, a una rivoluzione che si annunciava democratica, e invece ci ritroviamo con i Fratelli musulmani… Insomma, c’è da preoccuparsi profondamente. A me piacerebbe tornare, ma non saprei sinceramente dire quando sarà  possibile».


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