Se il contagio (nell’euro) arriva fino al nuovo muro di Berlino

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Che la Germania registri nel secondo trimestre la crescita più debole dall’inizio della ripresa, è una di quelle notizie che possono indurre in una tentazione ben nota agli stessi tedeschi: la Schadenfreude, il piacere per le disgrazie altrui, specie quelle di chi non perde occasione di ricordare i nostri limiti ed errori.
Una tentazione del genere potrebbe diramarsi su molte articolazioni. Una prima occhiata ai dati diffusi ieri dall’ufficio statistico federale suggerisce per esempio due cattive notizie allo stesso tempo per la Germania. La prima è che la domanda interna continua a deludere, spia di un sistema che ha fatto molto per la competitività  dell’export ma pochissimo per il dinamismo del settore dei servizi. L’aereo tedesco fin qui ha volato su un solo motore: le liberalizzazioni e una dose in più di concorrenza non sono un tabù da sfatare solo in Italia. Ma l’altra cattiva notizia, è che le esportazioni questa volta sono state minori persino delle importazioni. Pesa certo la frenata globale partita dal terremoto in Giappone: persino Hong Kong questa primavera ha registrato una contrazione dell’economia e la stessa Cina ha leggermente deluso.
Ma in prospettiva la salute della bilancia commerciale tedesca potrebbe apparire meno intimidatoria di prima per ragioni più di fondo. La Germania, vicecampione mondiale dell’export, ha appena rinunciato al nucleare. La chiusura delle centrali la renderà  sempre più dipendente dall’energia altrui. Le scelte sono limitate e ben note all’Italia: importare il nucleare francese, dopo aver rinunciato al proprio, o dipendere sempre più dalla Russia. In ogni caso, la decisione del governo di Angela Merkel eroderà  il surplus commerciale dei campioni d’Europa dell’export.
In fondo c’è chi d’istinto potrebbe rallegrarsene. C’è chi spera già  che una Germania dai surplus più modesti, o dalla crescita magari più timida, avrebbe meno autorità  di dettare le proprie condizioni all’area-euro. Il partito della Schadenfreude, ben presente in Europa, ricorderà  anche che Berlino ora sconta in parte i propri stessi errori. L’ostinazione a chiedere un’insolvenza tecnica della Grecia, il rifiuto di rendere robusto e credibile il fondo salvataggi (ribadito ieri da Merkel con il presidente francese Nicolas Sarkozy), non hanno fatto che aggravare il contagio. L’impatto sulla fiducia delle imprese e dei consumatori è evidente. Se i mercati azionari mondiali hanno perso 6,1 miliardi di dollari di capitalizzazione dal 26 luglio, in fondo lo si deve anche alle esitazioni di Berlino.
Ma davvero c’è da stappare un prosecco del Reno alle prime frenate della locomotiva tedesca? Se il resto dell’Occidente scoppiasse di salute, forse. Ma la crescita francese a primavera è stata zero, l’economia degli Stati Uniti (come quella della stessa Germania) viaggia sotto i livelli di prima del crac di Lehman Brothers. Dell’Italia si conoscono le delusioni passate e si inizia a temere una contrazione almeno in alcuni dei prossimi trimestri. Schiacciato dal debito pubblico e dalla fragilità  delle sue banche, l’Occidente ha già  in archivio un mezzo decennio perduto da quando la strana parola «subprime» si affacciò la prima volta ai telegiornali della sera. Una Germania più debole sarebbe solo più intrattabile politicamente nell’area-euro e di minore sostegno economico anche per la sua sponda sud. «Non chiederti per chi suona la campana — concludeva John Donne —. Essa suona per te».


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