Coltiviamo i ricordi sono la nostra vita

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Dopo aver passato più di un anno a cercare di migliorarla, cosa era successo alla mia memoria? In base ad alcuni parametri oggettivi, qualcosa era senz’altro migliorato. Il mio Digit Span, il sistema aureo con cui si misura la memoria operativa, era raddoppiato da nove a diciotto. Rispetto ai test dell’anno passato, ricordavo più versi poetici, più nomi di persone, più informazioni casuali tra quelle che mi venivano proposte. Eppure, a distanza di pochissimi giorni dal campionato del mondo che avevo vinto, ero uscito a cena con una coppia di amici, ero tornato a casa in metropolitana, e soltanto nel momento in cui avevo varcato la soglia della casa dei miei genitori mi ero ricordato di essere uscito in macchina. Non avevo soltanto dimenticato dove l’avevo parcheggiata, mi ero proprio scordato di averla.
Ecco il paradosso: malgrado le acrobazie mnemoniche che adesso ero in grado di compiere, mi portavo ancora dietro la stessa memoria sgangherata che metteva fuori posto macchine e chiavi. Avevo aumentato in modo incredibile la capacità  di rievocare quel genere di strutturate informazioni che si possono stipare in un palazzo della memoria, ma la maggior parte delle cose che avrei voluto ricordare nel quotidiano non erano fatti o figure o poesie o carte da gioco o cifre binarie.
Sì, sapevo memorizzare i nomi di dozzine di invitati a un cocktail party e la cosa poteva tornarmi utile. E se mi aveste consegnato l’albero genealogico dei monarchi inglesi, i periodi di permanenza in carica dei segretari di Stato americani o le date delle grandi battaglie della seconda guerra mondiale, avrei imparato i dati piuttosto in fretta e li avrei persino ricordati per un bel po’. Al liceo sarebbe stata una manna. Ma, nel bene e nel male, è raro che la vita somigli al liceo.
Facevo la stessa fatica di sempre a conservare le informazioni che non si potevano convertire in immagini e depositare in un palazzo della memoria. Avevo aggiornato il software della memoria, ma l’hardware sostanzialmente sembrava rimasto immutato.
Eppure, era evidente che fossi cambiato. O quanto meno, era cambiato il modo in cui consideravo me stesso. La lezione più importante che avevo appreso nell’anno trascorso in mezzo agli atleti della mente non era il segreto per imparare le poesie a memoria, ma qualcosa di più generale che nella vita mi sarebbe stato ben più utile. La mia esperienza aveva convalidato il vecchio adagio che la pratica rende perfetti, ma solo se è una pratica intensa, autocosciente e intenzionale.
Avevo sperimentato sulla mia pelle che, disponendo della capacità  di concentrazione, della motivazione e, soprattutto, del tempo, la mente può essere addestrata a compiere imprese straordinarie (…).
Più di un anno prima, quando avevo intrapreso il viaggio dal fondo dell’auditorium della Con Edison con il mio taccuino da giornalista in mano, non sapevo dove mi avrebbe portato, quanta parte della mia vita avrebbe assorbito, se e come mi avrebbe cambiato. Adesso che ho imparato a memorizzare poesie e numeri, carte e biografie, sono convinto che il miglioramento della memoria sia soltanto uno dei benefici – senz’altro il più evidente – dei tanti mesi di duro lavoro.
In realtà , ho allenato il cervello non solo a memorizzare, ma a essere più presente, a prestare attenzione al mondo.
Si ricorda solo ciò che si sceglie di osservare. (…) Nessuno desidererebbe sentirsi costretto a prestare attenzione a qualsiasi inezia, ma qualcosa va pur detto sull’importanza di non essere soltanto di passaggio in questo mondo, e sulla necessità  di fare qualche sforzo per afferrarlo, se non altro perché provandoci ci si abitua a osservare, e ad apprezzare.
Confesso di non essere mai diventato abbastanza esperto da riempire al volo i palazzi della memoria tanto da aver voglia di fare a meno del dittafono e del taccuino. E dal momento che il mio mestiere prevede che sappia di tutto un po’, le mie letture sono troppo vaste perché possa praticare, se non di tanto in tanto, la lettura intensiva e la memorizzazione che predica Ed. Sebbene io abbia mandato a memoria qualche poesia usando le tecniche mnemoniche, non ho mai affrontato un’opera letteraria più lunga del Canto d’amore di J. Alfred Prufrock. E quando arrivai al punto di saper accantonare più di trenta cifre al minuto in un palazzo della memoria, mi servii solo sporadicamente delle tecniche per memorizzare i numeri di telefono delle persone che volevo davvero chiamare. Era troppo semplice premere un tasto sul cellulare.
Di tanto in tanto memorizzavo liste della spesa, indicazioni, elenchi di commissioni, ma solo se – e non capita spesso – non avevo a portata di mano una penna per annotarli. Non voglio dire che le tecniche non funzionino. Io sono la prova vivente del contrario. Il fatto è che sono così rare le occasioni per usarle nel mondo reale dove la carta, i computer, i cellulari e i post-it possono occuparsi di ricordare al posto mio.
Allora perché prendersi la briga di investire nella propria memoria in un’epoca dominata dalle memorie esterne? La risposta migliore che posso dare è quella che ho ricevuto involontariamente da EP, che aveva perduto la memoria al punto di non saper più collocare se stesso nel tempo o nello spazio, o in relazione alle altre persone. Ovverosia: il modo in cui percepiamo e agiamo nel mondo dipende da ciò che ricordiamo e da come lo ricordiamo. Gli esseri umani sono solo un fascio di abitudini modellate dai ricordi. Controlliamo la nostra vita quando modifichiamo a poco a poco quelle abitudini, vale a dire quando alteriamo la rete dei ricordi.
Nessuna memoria esterna ha mai prodotto una battuta, un’invenzione, un’intuizione o un’opera d’arte che durino nel tempo. Non ancora, almeno. La capacità  di cogliere il lato ironico della vita, di stabilire legami tra concetti fino a quel momento separati, di formulare nuove idee, di condividere la stessa cultura sono azioni essenzialmente umane che dipendono dalla memoria. Ora più che mai, in un’epoca in cui il ruolo della memoria nella nostra cultura si sta sgretolando a ritmi inauditi, dobbiamo coltivare la nostra capacità  di ricordare. Sono i nostri ricordi a renderci quello che siamo, sono loro la sede dei nostri valori e la fonte della nostra personalità . Concorrere per sapere chi memorizza più in fretta pagine e pagine di poesie di second’ordine può sembrare fuori tema, invece è un modo per prendere una posizione forte contro la smemoratezza e per tenerci strette capacità  fondamentali che fin troppe persone hanno perso. Ecco quello che Ed ha cercato di insegnarmi fin dal principio: la memoria non va allenata soltanto per fare qualche trucchetto a una festa, ma per nutrire un qualcosa di profondamente ed essenzialmente umano.
(Traduzione di Elisabetta Valdrè) © 2011


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