Il lamento della Libia

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Ma non bisognava consegnarE Gheddafi al Tribunale penale internazionale, come avevano chiesto gli Stati uniti che pure quel tribunale non riconoscono?
Si apre così ora la spartizione del ricco bottino libico, si precipitano anche Germania, Russia e Cina, prima contrarie e dubbiose sulla guerra. Unico interlocutore il Cnt di Bengasi, un governo che se è mai esistito, adesso non esiste più, si è autodimissionato dopo la crisi di fine luglio che ha visto l’assassinio «intestino» del capo militare degli insorti Younes, e ora è ridotto a due soli rappresentanti, il «premier» Jibril e il «presidente» Jalil, entrambi già  ministri del regime di Gheddafi. Che ora decidono su tutto. La voce che il 35% del petrolio e gas della Libia sarà  concesso per la prima volta alla Francia è una certezza, comincia lo sblocco dei fondi sovrani investiti all’estero, già  si parla di consiglieri e basi britanniche, di nuove commesse militari, delle multinazionali impegnate sulle ricchezze del sottosuolo, a partire dall’acqua. La coalizione anglofrancese la fa da padrona, diementicando il summit si è svolto nella stessa area monumentale parigina dove il raìs libico piantò la tenda nel 2007 dopo essere stato abbracciato da Sarkozy. E l’Italia del voltafaccia che con Berlusconi baciava le mani al tiranno e con Frattini lo elogiava come «esempio per tutta l’Africa», è corsa sul carro della vittoria. Per salvaguardare i due «affari» che contano, il petrolio e il contenimento dell’immigrazione africana. E il Cnt garantisce su tutto, anzi ha ri-sottoscritto con l’Italia lo stesso Trattato anti-immigrazione che il colonnello libico aveva alla fine accettato e che prevede i famigerati campi di concentramento per i disperati in fuga dalla miseria africana. Ora l’Eni, con lo stesso Scaroni protagonista di tanti rapporti con il regime di Gheddafi, sostiene che «la Libia sarà  più ricca». Ci sono i dati dell’ultimo rapporto Censis sul Mediterraneo che dicono che il reddito dei libici, finora, era tre volte quello della Tunisia e del Marocco, quattro volte quello dell’Egitto e probabilmente tra i più alti, se non il più alto dell’Africa. Bisognerà  tornare tra due anni a chiedere a Scaroni a quanto ammonterà  la nuova ricchezza della Libia.
Con la guerra non si esporta la democrazia. Era già  chiaro e vero per l’Iraq di Saddam Hussein che, come tiranno, era sicuramente peggio di Gheddafi, resta confermato per la Libia. Con la guerra si esporta solo il dominio sulle risorse nell’epoca della crisi. E nel Medio Oriente mediterraneo la guerra ha contribuito a congelare, a sospendere le «primavere» arabe in una situazione d’incertezza, sotto l’incombere di un ruolo predominante dei militari e delle forze tradizionaliste dei vari paesi, in un contesto di conflitto armato dentro i confini della stessa crisi. Pregiudicando una soluzione politica al dramma sanguinoso che si consuma in Siria.
Ma non bisognava proteggere i civili? Perché i pogrom contro gli immigrati neri, accusati di essere stati «mercenari» al soldo del tiranno continuano per le strade e le città  libiche ed è legittimo chiedere che fine abbiano fatto quelle centinaia di persone finite nelle nuove galere. In Libia prima della guerra c’erano quasi un milione e mezzo di immigrati, che lavoravano. Ne sono fuggiti, per paura della guerra e delle sue conseguenze, nella piccola e povera Tunisia, almeno 700.000. Altre decine di migliaia hanno raggiunto l’Italia e Malta. Il resto è rimasto in Libia. Chi protegge questi civili? Nessuno. Eppure l’agenzia dell’Onu per gli immigrati – l’Oim, che non sa quando partirà  la prossima nave per portarne una parte in salvo -, la Croce rossa internazionale, Amnesty e Human Right Watch raccontano di violenze indiscriminate, di uccisioni, di esecuzioni sommarie, di arresti in massa e lo stesso Foreign Office ha denunciato stragi di civili «lealisti» a Zawiya.
Viene dalla Libia un lamento flebile, distante, ma straziante, insistente e doloroso. Basta saperlo ascoltare. E’ quello delle centinaia di migliaia di migranti africani o neri libici disprezzati dagli insorti «libici doc», è quello dei vinti, ora assediati a Sirte o sotto minaccia di una condizione che durerà  stagioni di assenza di legge e diritto, è il pianto silenzioso di tutti quelli che – e sono la maggioranza – non hanno combattuto né da una parte né dall’altra e vedono il loro paese in brandelli.
Noi siamo stati contro l’ennesima invenzione di una guerra «umanitaria», ma ora sarebbe giusto che una forza di pace, di peace-keeping, i tanto disprezzati caschi blu delle Nazioni unite, intervenisse al più presto. Lo ha fatto intendere lo stesso inviato dell’Onu, parlando di corridoi umanitari, di forze di interposizione capaci di fermare la legge delle vendetta e costruire un futuro per ora improbabile. Ma siccome l’Onu non a caso proprio nella globalizzazione non esiste più, non rappresentando davvero un consesso di nazioni aventi eguale diritto internazionale, nessuno solleva questa necessità . Peraltro respinta subito dai rappresentanti degli insorti, che si avviano ad un duro confronto interno – racconta l’International Herald Tribune – tra un’ala filo-atlantica (ma basta perché siano «democratici»?), una islamico-radicale, una più credibile e veridica senussita dei combattenti del Jebel che denuncia le strumentalità , anche militari, della leadership screditata di Bengasi.
Si vedono solo le vittime e le ferite, vecchie, quelle inferte dal raìs, e quelle nuovissime e non meno sanguinose, di cui sono protagonisti gli insorti e la «nostra» Nato con la guerra aerea per «proteggere i civili».


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