Iraq, Obama impigliato nella “guerra infinita”

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WASHINGTON – Alla commemorazione dell’11 settembre ci sarà  anche il convitato che nessuno avrebbe voluto: la guerra infinita.
L’addio alle armi di Barack Obama dovrà  aspettare ancora. Lo scollamento dalla palude irachena nella quale Bush la impantanò continuerà  anche oltre la scadenza promessa dal candidato Obama. Resteranno soltanto poche migliaia di soldati americani, tre o quattro mila, come supporto logistico e come istruttori per il presunto esercito iracheno, molti meno degli almeno 15 mila indicati dal Pentagono come indispensabili per puntellare il governo centrale. Ma la guerra senza fine lanciata sulle rovine delle Due Torri continua e l’annuncio liberatorio che il presidente avrebbe voluto fare alla nazione domenica, per il decimo anniversario dell’11 settembre, non potrà  esserci in piena onestà .
Otto anni e mezzo sono trascorsi dal giorno di marzo 2003 dello «shock and awe», dell’operazione spavento e timore piovuta dal cielo su Bagdad per aprire la strada alla marcia delle truppe e alla caduta di Saddam Hussein e tre dalla promessa elettorale di un ritiro totale. La guerra che avrebbe dovuto pagare per se stessa, grazie al petrolio iracheno, che sarebbe dovuta durare pochi mesi, nelle previsioni dei suoi propagandisti allucinati, continua, assottigliandosi in una dissolvenza estenuante senza mai davvero finire. Un’altra prova, semmai ce ne fosse stato bisogno, che le guerre sono sempre molto più facili da cominciare che da finire.
A che cosa possano realmente servire quei tre o quattro mila uomini e donne nelle uniformi della US Army che il ministro della Difesa, Leon Panetta, ha rivelato resteranno «in country», al fronte nel Paese, non è del tutto chiaro. Come forza militare, in una nazione più estesa dell’Italia, sono irrilevanti. Come struttura di controllo e di sicurezza non potranno fare molto, in una terra ancora puntualmente scossa dalla guerra fra bande, clan, etnie, sette spesso telecomandante dall’esterno, dove la situazione dell’ordine è precaria e non migliora. E come presenza politica serviranno soltanto a rammentare agli iracheni, siano essi curdi, sunniti o sciiti, che una completa autonomia non è ancora stata raggiunta. Formalmente, il numero e la qualità  della presenza americana saranno soggetti all’approvazione del governo di Bagdad, dice Panetta, quel governo “democratico” che si è allineato sulle posizioni di politica estera dell’Iran e della Siria del dittatore Assad. Ma è evidente a tutti che la decisione finale è stata già  presa dal solo governo che conta, quello che sta a Washington.
I generali americani, con il comandante del contingente al fronte, Lloyd Austin in particolare, sono descritti come «furiosi» per questa riduzione troppo frettolosa e drastica dalla forza di 45 mila oggi dispiegata. Ma non potranno far altro che mettersi sull’attenti e ubbidire all’autorità  politica, come già  fece il comandante dell’invasione, il generale Tommy Franks, costretto dal Pentagono e dal ministro Rumsfeld a lanciare un’invasione con molti meno effettivi di quanti sarebbero serviti per controllare davvero l’Iraq dopo la prevedibile vittoria sulle forze di Saddam. Né sono più felici di loro tutti quegli elettori che avevano creduto alle promesse elettorali di un ritiro completo.
Sarà  dunque una di quelle decisioni di compromesso che segnano, e affliggono, la presidenza Obama, nella loro capacità  di scontentare un po’ tutti volendo accontentare un po’ tutti. Tra la paura di restare in forze, come gli chiedevano i generali, e la paura di sentirsi accusare in campagna elettorale di avere «perduto l’Iraq» soltanto per mantenere la parola, la Casa Bianca ha scelto di lasciare un piede nella palude, per considerazioni simboliche più che strategiche. L’eredità  di queste guerre infinite è qualcosa che il successore di Bush ha dovuto assumersi, trascinando un peso finanziario, umano e politico del quale non riesce a sbarazzarsi, senza rischiare la solita accusa di essere un «progressista soft».
Lo soccorre, ma soltanto in piccola misura, la coltre di indifferenza che ormai ha coperto, nell’opinione pubblica, questa avventura cominciata male e proseguita peggio, come ha ammesso coraggiosamente l’ex direttore del New York Times, Bill Keller, nel suo primo commento da opinionista libero da responsabilità  editoriali. Keller, che era stato uno dei cosiddetti «falchi liberal», delle ex colombe che nell’emozione del dopo 11 settembre si scoprirono «falchi senza riuscire a crederci», ha scritto che «l’operazione Iraqi Freedom è stata un colossale disastro». Ma è più facile per un giornalista o un commentatore onesto voltare la pagina e chiudere il libro dei propri abbagli che per il presidente di una nazione confessare che l’addio alle armi, per un comandante in capo, è infinitamente più straziante.


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