La crisi e le fondazioni bancarie

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È una falla che deriva dal crollo delle quotazioni delle banche, bersagliate dal deprezzamento dei titoli di Stato più deboli dell’Eurozona, nei quali avevano cercato rifugio considerandoli privi di rischio, e dall’aumento delle perdite realizzate e potenziali sui crediti alla clientela prostrata dalla recessione. Al tempo stesso, questa falla si ritorce contro le banche che dovrebbero ancora ricapitalizzarsi, come sostiene il direttore del Fondo monetario internazionale, Olivier Blanchard, nell’intervista a Federico Fubini. Senza contare i 14 miliardi di perdite attese per il 2012 sui titoli di Stato, le prime 5 banche italiane hanno bisogno di almeno 12 miliardi per raggiungere i requisiti patrimoniali di Basilea 3, secondo le stime di Mediobanca Securities riportate dal CorrierEconomia. E oggi, con un mercato rattrappito dalla paura, temono di non poter più trovare nemmeno nelle fondazioni gli azionisti stabili e forti sui quali fino alla primavera avevano potuto contare.

È probabile che questa falla non venga contabilizzata nei bilanci 2011, grazie a un decreto del governo, in vigore da anni e reiterato a luglio, che consente anche alle fondazioni di non svalutare i titoli detenuti fino a scadenza e le partecipazioni immobilizzate qualora gli amministratori giudichino transitoria la perdita di valore. È bene dirlo subito: non si tratta di un regime di favore per le fondazioni; le banche e le finanziarie private da sempre ricorrono a tali accorgimenti. Non di meno un problema esiste.

Esiste quando una Fondazione Cariverona, che è guidata da un esperto industriale e non da un politico, sta perdendo l’80% sul valore al quale ha in carico le azioni Unicredit o quando la Fondazione Mps, che invece risponde al sindaco di Siena, perde il 57% sulla sua banca ma ha anche 760 milioni di debiti o ancora quando la Compagnia di Sanpaolo, che ha relazioni articolate con i maggiorenti politici, accademici ed economici torinesi, perde il 56% su Intesa Sanpaolo, e ha 250 milioni di debiti con Jp Morgan, per quanto siano a tassi convenienti. E il problema esiste ancor più se l’investimento nella banca conferitaria pesa per il 61% del totale delle attività  nel caso veneto, per il 55% in quello piemontese e per l’84% in quello toscano. D’altra parte, a dirla tutta, nemmeno diversificare gli investimenti offre garanzie assolute. È impossibile fare calcoli prima della chiusura dell’esercizio, ma per una Compagnia di Sanpaolo che si dice guadagnerà  qualcosa avendo scommesso su mercati esteri più dinamici, ci sono anche una Cariplo, che ha fuori da Intesa l’80% degli attivi e comunque faticherà , e una Crt, che fino a ieri poteva vantare tesoretti impliciti nelle partecipazioni in Atlantia e Société Générale e adesso non più.

Queste difficoltà  di bilancio, ancorché governabili nel breve termine in virtù del decreto, aprono una riflessione storica sulle fondazioni e pongono un’alternativa radicale per il futuro. Nei primi anni 90, la legge Amato-Carli trasformò le casse di risparmio e gli istituti di diritto pubblico, che per alcuni secoli avevano sottratto famiglie e imprese all’usura e fatto beneficienza ai territori con gli utili della gestione, in fondazioni di origine bancaria, soggetti di diritto privato che perseguono l’interesse pubblico, previo trasferimento dell’attività  creditizia a nuove società  per azioni. Quelle banche, che il grande giurista americano Louis Brandeis avrebbe assimilato alle public utilities, si facevano imprese a scopo di lucro, spesso esasperato, e delegavano le antiche finalità  alle fondazioni, proprietarie in libera uscita.

Le fondazioni hanno approfittato dei tempi. Era loro interesse e dovere, data la legge. I loro patrimoni, formati dalla partecipazione residua nella banca e dal reinvestimento dei proventi della privatizzazione, si sono dilatati grazie al lungo ciclo positivo delle Borse e hanno assicurato cospicui rendimenti, e dunque la possibilità  di erogare 2 miliardi l’anno. Checché se ne dica, le fondazioni hanno sostenuto i banchieri di scuola McKinsey, il loro mito del gigantismo, le remunerazioni esagerate, la restituzione ai soci di quel capitale che ora tanto servirebbe perché così il titolo saliva. Domandarsi se sia stato un bene o un male scommettere sulla banca impresa che, per guadagnare di più, cessa di essere infrastruttura dell’economia è un esercizio storico che i fondatori non potranno evitare. È dalla risposta che si daranno che dipenderanno in larga misura le loro scelte se davvero le banche italiane dovranno fare altri aumenti di capitale: lasciare le banche al loro destino (che potrebbe essere pure la statizzazione nazionale o europea), registrare le perdite e gestire il patrimonio rimasto come puri enti finanziari oppure riannodare il cordone ombelicale impegnando tutte le forze ed esercitando fino in fondo il ruolo dell’azionista. Ma chissà  se alle banche è rimasta un’anima che meriti lo sforzo.


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