L’auto del popolo

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WOLFSBURG. Nelson a Trafalgar Square, Marco Aurelio al Campidoglio o Garibaldi sul Gianicolo: ogni capitale ha i suoi monumenti a un eroe. Qui a Wolfsburg, la piccola città  nascosta dalle brume di Bassa Sassonia dove Volkswagen guida la conquista del mondo dell’auto, ti accoglie all’arrivo un metallico ometto basso e curvo, carico di valigie, tratti mediterranei, occhi spalancati tra fatica e voglia di riscatto. “Der Auswanderer – l’emigrato”, è scritto sul piedistallo in tedesco e in italiano.
Anche la scommessa multiculturale è un’arma segreta del colosso del Made in Germany, di fatto già  numero uno globale. Insieme al rifiuto dei muri del censo e dei ricatti-baratto tra disoccupazione o povertà . Cerchiamo allora di capire, passeggiando a Wolfsburg-Golf city dal nome del prodotto-simbolo, il segreto del volo di Volkswagen, il primato raggiunto senza tagliare né qualità  dell’offerta, né le persone che sfami.
Ascolti lingue familiari o ignote, nel centro pedonale. Dialetti del profondo sud d’Italia, in chiaccherate al caffè o alle bocce tra pensionati sereni e decorosi come i loro abiti casual, l’arabo del maghreb dei giovani tunisini usciti dalla miseria, il cinese delle delegazioni guidate da eleganti China girl in carriera. Fatichi a ricordare la paura di diciotto anni fa: in una città  allora grigia e delabrée, il colosso in declino rischiava il peggio, delocalizzava a oltranza, tagliava ogni «esubero», come il mercato globale definisce gelido i destini umani. Se torni dove allora l’Ig Metall faceva sfilare cortei disperati della rabbia, trovi strade ripulite, shopping center, centri culturali e ristoranti etnici. Un complesso outlet design postmoderno a prezzi per tutti attira pubblico da quartieri operai risanati a fondo, uno spazio islamico e una moschea sono pronti, e quando il muezzin chiama alla preghiera ormai nessuno storce più il naso. Solo la fabbrica enorme dalle ciminiere brune oltre il canale ti ricorda che sei in una città  industriale, operaia.
«Golf city» cela lo stress del successo conseguito in corsa. Volkswagen si era posta l’obiettivo di diventare numero uno dell’auto nel 2018. Invece, ha annunciato l’altro giorno il Center of automotive management, se guardi ai dati-chiave, cioè crescita delle vendite, fatturato, investimenti in ricerca e tecnologia, il sorpasso di General Motors e Toyota è già  avvenuto. Fatturato 78 miliardi di euro e utili lordi 8,2 miliardi nel primo semestre 2011, vendite cresciute del 16,7 per cento, più di 7,2 milioni di auto vendute nel 2010. Con i suoi dieci marchi, dalle low cost di Skoda e Seat fino a Audi, Porsche, Bentley, Lamborghini, il colosso s’impone dalle Americhe alla Cina.
«Stiamo attenti a non montarci la testa», ha detto il numero uno di Volkswagem Martin Winterkorn. E l’imperatore globale di Golf City, il potentissimo Ferdinand Piech, con un filo di voce e un imperscrutabile sorriso un po’ asiatico, invita a perseguire grandi disegni e «visioni» senza gesti eclatanti. Eppure i dati sono là : nel boom d’investimenti dell’industria dell’auto tedesca in ricerca e tecnologia (20 miliardi di euro tra il 2008 e il 2009, ultimi dati disponibili) Volkswagen fa la parte del leone.
È un produttore di massa, suggerisce Ferdinand Dudenhoeffer, massimo esperto tedesco dell’auto, ma diverso dagli altri. Ha in pugno marchi premium come Audi che fanno paura a Bmw e Mercedes, lancia con la «Up!» la prima utilitaria mutante, oggi a pistoni ma con gli spazi interni già  predisposti per la propulsione elettrica. Non scommette su supersconti e premi rottamazione, ma sulla fama di qualità  superiore.
«Non è stato sempre così, ricordiamo ancora anni pesanti», mi racconta il professor Rolf Schnellecke, democristiano come Angela Merkel, potente borgomastro. «All’inizio dei Novanta vivevamo sulla pelle quasi un declino alla Detroit. Delocalizzazioni, risparmio a oltranza, disoccupazione al 20 per cento, ventimila posti di lavoro cancellati su 120mila abitanti. La gente non voleva più vivere qui, i giovani se ne andavano. Passavamo notti insonni, chi di noi aveva viaggiato sentiva come un incubo a casa, un futuro dietro l’angolo, il degrado desolante delle città  industriali della East Coast americana, paura di povertà  e tensioni. L’idea di tentare l’impossibile nacque dalla disperazione». Anni cupi, il ricordo pesa ancora, convengono al team di Bernd Osterloh, il carismatico leader locale della Ig Metall. L’esplosione sociale era alle porte. Si misero al tavolo sentendosi ognuno per conto suo con le spalle al muro, politici, sindacalisti, Piech e tutto il vertice aziendale.
«La concertazione, valore costitutivo del dopoguerra, rinacque allora», convengono oggi Schnellecke, il team di Piech e i compagni di Osterloh, i tre vertici del triangolo. «Sacrifici pesanti, lavorare meno e guadagnare meno per lavorare tutti, flessibilità  al massimo, produttività  senza risparmio di rinunce e fatiche. Ma anche posto sicuro e scommessa sui dipendenti più anziani ed esperti, un capitale da non gettar via. Ne è valsa la pena», dice il sindaco. Negli ultimi 12 anni, in città  sono sorti 28mila nuovi posti di lavoro, la disoccupazione è scesa a poco sopra il 5 per cento. Anziano o giovane, l’operaio-massa, notano i colleghi dei media locali, ha cambiato volto: è restato citoyen, cittadino, e in reddito e certezze è asceso al rango di bourgeois.
Si è ripreso una città  che ha cambiato volto. Teilhabe, partecipazione alla vita pubblica e alla prosperità , è almeno a casa il credo del successo globale dell’impero. Capitalismo dal volto umano. In centro boutique e locali giovanili affiancano il palazzo dei sindacati, e idee nuove. Dalla Autostadt, insieme museo dell’auto, vetrina dei marchi del gruppo e location di concerti rock, fino al Kunstmuseum, il museo d’arte cittadino collegato al Moma newyorkese, sempre mostre di livello, da Giacometti a Cartier-Bresson. In microscopico, un’atmosfera da città  ripensata come a Londra tra i vecchi dock e Canary Wharf.
Non illudetevi, avvertono sindacalisti e giornalisti locali: Piech e Winterkorn non sono filantropi da fabian society: offrendo concertazione e qualità  della vita servono lungimiranti i loro interessi. L’operaio felice lavora di più e meglio, e nella piccola capitale del grande impero Volkswagen devono trovarsi bene anche i sudditi ben pagati che vengono da Sao Paulo o Shanghai a imparare ruoli giusti in carriera. Elezioni locali sono alle porte, in manifesti e appelli online è presente anche la Linke, la sinistra radicale: chiede ancor più eguaglianza e giustizia. Non fa paura, e di manifesti dell’ultradestra razzista non vedi l’ombra.


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