Nelle strade di Tripoli i feudi delle tribù

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TRIPOLI. Se ti svegli presto trovi la città  vuota. Non un cane sul lungomare pulito, elegante, con qualche automobile carbonizzata e le ruote all’aria. Montagne di immondizie nei vicoli della Medina. Folate di puzza di pesce andato a male davanti a certi negozi sprangati ma non stagni. Plastiche e cartacce sulla piazza Verde che non si chiama più cosi, ma «dei Martiri». E qua e là , agli angoli delle strade, qualche ribelle insonnolito, con il kalaschnikov tra le gambe, che non ti getta neanche uno sguardo.
Si festeggia per tre giorni la fine del digiuno del Ramadan (soltanto da domani si lavora) e la gente va a letto tardi, spossata anche da sei mesi di guerra civile e dall’euforia per una libertà  carica di promesse e di incertezze. Vista così, di primo mattino, è una città  che ha fatto baldoria fino alle ore piccole e dove nessuno ha avuto voglia di riordinare prima di andare a dormire. Per quel che mostra, allungata com’è sul Mediterraneo, e per quel che ti fa immaginare, Tripoli è un vasto, solenne palcoscenico, in cui si svolgerà  una rappresentazione di cui sfido chiunque a indovinare la trama. Il tema è la democrazia. Ma in che versione e attraverso quali drammi? O tragedie?
Anzitutto un apprezzamento. Niente saccheggi dopo il crollo del regime. Violenze, vendette, si, ce ne sono state. Ma partiti i gheddafisti si sono smorzate. E adesso Tripoli è stesa davanti a te, indifesa, stanca, esposta alle aggressioni, alle riconquiste. E non accade nulla. La guerra, almeno qui, è dunque finita sul serio. Il raìs è nascosto, cerca una fine adeguata al suo orgoglio e alla sua vanità ; e il figlio fedele, Seif el Islam, urla nelle radio siriane che ventimila combattenti sono pronti alla rivincita, a Sirte, a Misurata, a Sabha. Ma la sua voce si perde inascoltata nella capitale che dorme. E che al risveglio si scoprirà  ancora assetata, sporca, senz’acqua. O quasi. Infatti il Grande Fiume artificiale, il ciclopico acquedotto costato tredici anni di lavoro e trenta miliardi di dollari, che dissetava Tripoli con tubi lunghi 3.600 chilometri, lungo i quali scorreva l’acqua trovata nel Sahara, sarebbe sotto il controllo dei gheddafisti del Sud. I quali da laggiù assediano a modo loro, con la sete, la capitale ribelle.
Con un tripolino che ti aiuta a leggere i graffiti in arabo capisci che la metropoli è presidiata da gruppi concorrenti se non proprio rivali. Ognuno di questi gruppi, o brigate, occupa un quartiere, e ha scritto con lo spray il proprio nome sui muri per annunciare chi esercita l’autorità  in quel luogo. Le Aquile di Misurata, arrivate in più di cinquemila dal porto mediterraneo in cui si è combattuto per mesi, si sono installate nella zona del porto, della Banca centrale e dell’ufficio del primo ministro. E adesso un vistoso graffito annuncia “piazza Misurata”. I ribelli di Zintan, città  sulle montagne occidentali, controllano l’ aeroporto. Ed è scritto all’ingresso. I berberi di Yafran occupano la piazza centrale, e lo fanno sapere: “Qui ci sono i rivoluzionari di Yafran”. Quelli della Brigata Tripoli erano acquartierati nella zona in cui abito, quasi in riva al mare. La sera dividevo la cena con loro, ma sono partiti. Forse in direzione di Misurata, dove si potrebbe combattere allo scadere dell’ultimatum lanciato ai gheddafisti dal Consiglio nazionale di transizione. Di fatto il governo provvisorio.
Le brigate sembrano quasi indipendenti. Hanno costituito dei piccoli feudi. Ognuna afferma con fierezza l’appartenenza alla propria provincia, che spesso coincide con il clan o la tribù. E non si risparmia nel vantare le proprie imprese belliche. Le Aquile di Misurata rivendicano successi militari attribuiti alla Brigata Tripoli. E la Brigata Tripoli non si lascia fare. Sostiene con fermezza che le vittorie aggiudicatele sono autentiche. I berberi di Yafran vantano i contributi rivelatisi decisivi nella conquista della capitale, in particolare dei bunker del raìs. A queste polemiche, al limite delle rivalità , si aggiungono quelle tra gli islamisti e i laici. Le une e le altre mettono in luce la crisi di quella che dovrebbe essere l’autorità  centrale, cioè il Consiglio Nazionale di Transizione. Il quale, a parte l’arrivo di qualche rappresentante, si fa aspettare a Tripoli. L’insicurezza non giustifica più il ritardo del suo insediamento nella capitale. E’ tempo di disciplinare il mosaico di forze armate che si è formato nella capitale.
Ovunque, nei paesi della Primavera araba, gli islamisti sono stati colti di sorpresa dall’insurrezione contro i raìs: in Tunisia, in Egitto e anche in Libia. Nel frattempo hanno però recuperato. La guerra civile ha favorito i jihadisti libici, molti dei quali avevano alle loro spalle una lunga esperienza di lotta armata in Afghanistan e in Iraq. I veterani del Gruppo combattente islamico libico, sciolto da tempo ma per anni alleato di Al Qaeda e dei Taliban, hanno fatto alla svelta a creare unità  più abili di quelle degli shebab inesperti. I vecchi jihadisti hanno subito riconosciuto l’aiuto decisivo della Nato, ne hanno usufruito senza esaltarlo, e hanno stretto alleanze, sia pur non sempre facili, con i gruppi laici e liberali.
Il caso di Abdel Hakim Belahj (conosciuto anche come Abdel Hakim al Hasadi) è il più noto. Fondatore del Gruppo combattente islamico libico, e reduce dall’Afghanistan e dall’Iraq, oltre che da numerose prigioni, Belahj è adesso il governatore militare di Tripoli. A nominarlo a quella carica non è stato il Consiglio nazionale di transizione ma gli uomini della Brigata Tripoli, da lui organizzata (con l’aiuto della Cia), e comandata fino alla conquista dei bunker di Gheddafi.
La presenza di Belahj suscita perplessità  e sospetti. Ma chi lo conosce e ha seguito le sue lunghe e tormentate revisioni ha fiducia in lui. Oltre a sottolineare le evidenti doti di comando, chi lo ha frequentato non esita a esaltare la sua attuale moderazione politica. Lo stesso presidente del Consiglio nazionale di transizione, il giudice Mustafa Abdel Jalil, pur avendo subito la sua nomina a governatore militare di Tripoli, si è fatto accompagnare da Belahj a Doha, nel Qatar, per l’incontro con la Nato. E lo ha presentato ai dirigenti dell’Alleanza affinché dimostrasse la sua affidabilità . La situazione di questi giorni a Tripoli lascia comunque prevedere la forte presenza di un partito islamista nella Libia liberata da Gheddafi. La scossa politica nel mondo musulmano, anche in quello non arabo e sciita, è robusta a tal punto da spingere Ahmadinejad, il presidente iraniano, a riconoscere di gran fretta il nuovo regime di Tripoli. Un regime nato con il contributo decisivo della Nato e con quello, per molti inquietante, degli islamisti. Ma, come dicono i laici di Bengasi, un islamista disposto a rispettare le leggi democratiche è un cittadino come gli altri.


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