Altolà  di Silvio all’amico: stavolta non c’è un «piano B»

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Per quanto si susseguano le suggestioni e i nomi su possibili alternative al Cavaliere, l’unica cosa certa è che una crisi farebbe coriandoli degli attuali partiti, a iniziare dal Pdl, dove si paventa un’emorragia di cinquanta deputati e trenta senatori.
Ecco lo scenario che ieri si parava davanti al capo del governo e al suo alleato Bossi: divisi sulle misure da adottare per scongiurare la disfatta, hanno consumato un Consiglio dei ministri straordinario senza trovare l’intesa, malgrado entrambi sappiano che una rottura li separerebbe irrimediabilmente anche alle elezioni. Per questo motivo alla riunione di governo il Senatur aveva evocato la «saggezza» per «evitare di farci troppi danni». E il danno irreparabile sarebbe una mancata intesa sulle riforme strutturali.
Ma quali? Maroni ieri mattina aveva lavorato per smantellare le barricate issate da quanti nella Lega si oppongono al progetto di revisione del sistema pensionistico chiesto dal Cavaliere. Convinto da tempo che Berlusconi debba fare «un passo di lato» per agevolare il ricambio generazionale nel centrodestra e consentire il rilancio dell’alleanza, riteneva tuttavia che non fosse questo il momento, bensì gennaio.
Una delle possibili soluzioni nella trattativa sulla previdenza porta il suo nome. È sua infatti la riforma — varata quando era ministro del Welfare — su cui il Carroccio era parso disponibile a trattare: quello «scalone» che il governo Prodi aveva abolito quattro anni fa. La prospettiva che il piano fosse considerato insufficiente dall’Europa, ha indotto però il titolare dell’Interno a sparigliare, chiedendo a Berlusconi di spostare dalle pensioni alla pubblica amministrazione l’attenzione del governo, per risanare le casse dello Stato.
Il gioco si è così fatto pesante, fino a evocare la crisi dell’esecutivo. Certo, tocca a Bossi l’ultima parola, «tocca a te decidere Umberto», ha detto il premier al capo leghista. Nelle sue mani non ci sono solo le sorti di Berlusconi, ma dell’alleanza così come finora è stata. In caso di divorzio non resterebbe più nulla. O dentro o fuori, stavolta non ci sono alternative, «stavolta — come ha spiegato il Cavaliere — non abbiamo un piano B».
La trattativa che il Senatur ha definito «uno slalom tra i paletti», nel quale servono le doti di «quel maestro di sci che è Tremonti», si è complicata. Manca quell’unità  di intenti chiesta da Gianni Letta in Consiglio dei ministri: dinanzi all’«amara medicina» da ingoiare, a fronte di «provvedimenti impopolari» da adottare, «siamo chiamati alla coerenza. Per fare certe cose bisogna essere tutti d’accordo su tutto. O dovremo essere conseguenti nelle scelte». Anche per evitare che al premier «venga addossata la crisi dell’euro, responsabilità  che non è sua».
L’obiettivo era impedire che a Bruxelles Berlusconi venisse posto di nuovo al banco degli imputati, sebbene «il vero banco di prova — come sostiene Frattini — non siano la Merkel e Sarkozy e nemmeno la Commissione europea, ma i mercati». Una bocciatura del progetto di risanamento e sviluppo da parte dal circuito finanziario internazionale, equivarrebbe a una mozione di sfiducia al governo. Perciò il Cavaliere ha premuto tutto il giorno affinché Bossi aprisse alla mediazione sulla previdenza.
Il punto però non è tecnico ma politico. E quando ieri mattina Maroni ha avvisato che «sulla previdenza abbiamo già  dato», il motivo era chiaro: voleva pungolare Berlusconi a non accettare passivamente i «diktat» dei partner europei. Secondo il titolare del Viminale bisognava rispondere «a muso duro» a Sarkozy, perciò è rimasto soddisfatto dalla nota con cui nel pomeriggio il presidente del Consiglio ha ricordato alle cancellerie di Parigi (ma anche di Berlino) che l’Italia «non accetta lezioni da nessuno».
Ma dinnanzi alle insistenze del Cavaliere sulla necessità  di varare un intervento radicale in materia di previdenza, Maroni ha rammentato che «l’abbiamo già  fatto»: «Questa estate la nostra riforma è stata certificata anche dall’Europa. Non è che adesso non va più bene, solo perché Sarkozy deve salvare settantadue banche francesi esposte ai titoli tossici».
Il fatto è che, nel gioco dello «scaricabarile» a Bruxelles, il premier italiano è più debole, e per la prima volta senza «un piano B». Resta da capire chi ne abbia uno alternativo, nella maggioranza come nell’opposizione. Se la crisi economica sfociasse in crisi politica, il conto sarebbe salato per tutti.


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