Le telefonate in codice di Lavitola per nascondere affari e pressioni

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ROMA – «No, no, no. La richiamo io. La richiamo io. La richiamo io sul fisso…». È perentorio Valter Lavitola quando, il 20 novembre 2009, stoppa una delle segretarie di Berlusconi che lo chiama, ovviamente al telefono, e tenta di passargli il presidente Berlusconi. Dura solo 24 secondi questa intercettazione, ma rappresenta un punto fermo. Il direttore dell’Avanti sa per certo di essere sentito dalle microspie e cerca di dribblare «il mio maresciallo che mi ascolta». Passa la giornata attaccato al cellulare, cerca di continuo il «capo», cioè il Cavaliere, senza mai chiamarlo per nome, ma una sola conversazione, quella del 20 ottobre in cui il premier vagheggia «di far fuori i palazzi di giustizia e Republica», resta impressa nei nastri di Pescara nell’autunno 2009.
ADESSO TROVATE UN TRITA-CARTE
E allora non ci si può non chiedere cosa nasconda il faccendiere Lavitola, quali siano i suoi affari segreti. Perché, dalla metà  di novembre in poi, cambi telefono e dica alle segretarie: «D’ora in poi, quando mi passate le telefonate, non dite più il nome della persona con cui sto per parlare, capito?». E aggiunge: «E adesso trovatemi un trita-carte». Cosa doveva distruggere Valter Lavitola?
Folcloristico, per chi ama il genere, nel suo intercalare napoletano, è estroso nel reperire nomi di copertura per occultare le sue vere mosse. Quando, alla cornetta con la segretaria di Berlusconi Marinella Brambilla che gli deve dare l’argent de poche per Gianpi Tarantini, i famosi 20mila euro al mese, parla di «pacchi di foto da consegnare a Juanin» anziché di pacchi di soldi. Tant’è che la Brambilla cade nell’equivoco e a Juanin mette in mano davvero le foto del “Dottore” con tanto di autografo. Lo ha confermato lei stessa ai magistrati di Napoli quando le hanno messo le telefonate sotto il naso chiedendogli conto di cosa fossero mai quelle «foto» e cosa andasse cercando Lavitola.
COSI’ IL MARESCIALLO NON SENTE
Proprio un’infastidita ed esasperata Marinella è quella che si sente dire da Lavitola il 21 ottobre: «Allora, ascolta un secondo, siccome mo’ io sto andando dove gli avevo detto che andavo…lui mi deve dare un orario preciso in cui io mo’ chiamo da un telefono tranquillo, così il mio maresciallo in ascolto non sa gli affari miei…». Dopo le 19, raccomanda il direttore dell’Avanti, perché a quell’ora, evidentemente, può disporre di un apparecchio che ritiene non intercettato. Sempre Lavitola, come ha rivelato l’inchiesta di Napoli, porta e fa usare a Berlusconi schede sudamericane per evitare le pulci.
Protegge i suoi affari. Quelli che cerca sempre di mascherare. Di cui non fornisce mai dettagli al telefono. Gli affari in Albania ad esempio, quelli per cui chiede certezze e coperture al generale della Gdf Paolo Poletti, l’attuale vice direttore dell’Aisi, il servizio segreto civile. Sono affari nei quali c’è da fare «bingo, ma un bingo biblico», e per cui ammette di essersi «ficcato in una papocchia». Però non c’è mai un riferimento preciso. Tutto resta nel vago e nell’incomprensibile.
DIGLI DI CHIAMARMI
Questo è Lavitola. Uno che il 17 novembre 2009, a una sua segretaria, ordina: «Per favore, da Skype (che non può essere intercettato, ndr.), manda un sms ad Amendola e gli dici “ti prego quando puoi di chiamarmi”». Dovrebbe trattarsi di Vincenzo Amendola, il capitano della Gdf che nel ’96 indagò sulla Finivest a Milano e all’epoca delle intercettazioni era in servizio a Roma al comando generale. Con i finanzieri appuntamenti alla fermata “Lepanto” della metropolitana, in zona Vaticano.
Le numerose conversazioni con l’ex direttore generale della Rai Mauro Masi confermano la cautela di Lavitola nell’usare il telefono. Eccoli il 5 novembre. Masi: «Dove sei?». Lavitola: «Maurus…sto a via Nazionale». Masi: «Perché non passi un attimo da me che ti devo dì’ delle cose?». Lavitola: «Sì, sì, mo’ passo, mezz’ora, il tempo che arrivo».
VEDIAMOCI AL SOLITO POSTO
Spesso la strada viene preferita all’ufficio. Come succede con Michele Borrelli, il direttore generale del ministero per lo Sviluppo economico, persona con cui intrattiene continui e costanti rapporti per un affare in Campania che lo riguarda. «Michele, hai da fare? Ci possiamo vedere al solito posto?». E s’incontrano in strada, al bar, o alla peggio nell’ufficio del faccendiere. All’interno del quale non ci sono microspie ambientali e quindi nulla resta a testimonianza di quei colloqui.
Degli incontri che ha avuto non fornisce mai particolari. È volutamente generico. Del tipo: «Ho appena visto quella persona di cui ti dicevo…». Oppure «quello lì…». O ancora «quel signore con cui ho preso il caffè…». Sfiora il ridicolo quando non cita neppure Berlusconi. Per tutti è «lui», è «il capo». In quasi quattromila telefonate agli atti dell’inchiesta sui finanziamenti all’Avanti c’è un solo caso in cui Lavitola fa il nome di Berlusconi. Succede quando parla con il vice premier albanese Ilir Meta: «Buonasera, Berlusconi non c’è. È partito per la Russia, mi ha lasciato tanti saluti. Poi con lui combiniamo un appuntamento…».


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