Via un ministro dopo l’altro
La presidente Dilma Rousseff è al potere da meno di un anno (primo gennaio scorso), è la prima donna presidente del Brasile e, in così poco tempo, è già indicata dalla rivista Forbes come una delle tre donne più potenti del mondo (dietro la tedesca Merkel e l’americana Clinton). Anche in casa, «Dilma», accolta con diffidenza prima come candidata (imposta dal suo mentore Lula) e poi come presidente, in soli 10 mesi, si è conquistata un gran credito e i sondaggi la danno con più del 70% di gradimento. Di certo favorita in questo dall’eccellente andamento dell’economia del Brasile (in netta contro-tendenza rispetto alla crisi globale), il grande paese che finalmente sembra essersi risvegliato e aver acquisito il ruolo più proprio di «potenza emergente» e «global player». Consacrato dall’assegnazione dei Mondiali di calcio del ’14 e dei giochi olimpici del ’16 (a Rio de Janeiro).
Ma di certo il suo alto indice di gradimento Dilma lo deve anche una delle parole d’ordine lanciate nella campagna elettorale e ripetute una volta entrata nel Planalto, il palazzo presidenziale di Brasilia: «tolleranza zero» con la corruzione, un male endemico (anche) della casta politica brasiliana. Di più «una pandemia che minaccia la credibilità delle istituzioni e l’intero sistema democratico», come recitava lo slogan degli «indignati» che il 7 settembre scorso, non a caso il giorno dell’indipendenza nazionale, hanno organizzato una manifestazione a Brasilia durante la tradizionale parata militare. L’antropologo Roberto da Matta dice che (anche) in Brasile «i governi vanno e vengono, di destra, di centro, di sinistra, Lula e ora Dilma, ma tutto continua come sempre». Tutti uguali, quindi, come si sente dire in giro?
Per il momento Dilma non è affatto uguale e ha mandato segnali forti e costosi (perché il suo Pt è costretto a una coalizione di governo composta da una dozzina almeno di partiti che, quando qualcuno dei loro membri viene colto con le mani nella marmellata, non gradiscono affatto e minacciano ritorsioni). Da giugno a ieri, Dilma ha preteso o «accettato» le dimissioni di 6 dei suoi 37 ministri, tutti per corruzione (eccetto uno, Nelson Jobim, ministro della difesa, dimesso perché aveva definito in un’intervista «smidollate e idiote» le sue colleghe donne di governo e perché troppo filo-Usa per un paese che non ha pià alcun complesso d’inferiorità con il fratellone del nord). Tutti, ovvio, giurano che le accuse sono «false».
Il primo caso, quello di Antà´nio Pallocci in giugno, è stato il colpo più duro per Dilma. Palocci, un ex trozkista del Pt divenuto troppo amico del business e del mercato, le era stato imposto da Lula come ministro della Casa civile, il n.2 del governo in Brasile. Già costretto a dimettersi nel 2006 quando era ministro delle finanze di Lula per un altro scandalo (da cui poi fu assolto), questo volta ha dovuto lasciare Planalto perché è apparsa più che sospetta la crescita – e non di due ma di 20 volte! – del suo patrimonio personale in soli 4 anni (2007-2010) da deputato. Poi, in luglio, via il ministro dei trasporti Alfredo Nascimento, del piccolo Partido da Repàºblica (soprafatturazione delle opere, tangenti dei costruttori); in agosto il ministro dell’agricoltura Wagner Rossi (tangenti e viaggi aerei gratis offerti dall’agro-business); in settembere il ministro del turismo Pedro Novais (fondi pubblici usati per la servitù domestica e per l’autista della moglie), entrambi del Pmdb, il grande «centrà£o» interessato solo ad arraffare posti e potere, ma anche il principale alleato di governo (con i suoi 80 deputati, 20 senatori, 5 governatori statali e il vice presidente della repubblica).
Ieri, infine via il sesto, il ministro dello sport Orlando Silva, comunista del Pc do B (accusato di intascare fondi pubblici da un programma statale per promuovere lo sport fra i bambini poveri…).
La mano di Dilma, finora, non ha tremato. Ma il rischio, se continua così, è che a forza di perdere ministri si perda anche la stabilità del governo e la sua come presidente.
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