La Cgil si ritrova fuori dalle fabbriche “Il governo fermi l’estremismo torinese”

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TORINO – Con una lettera inviata a tutte le organizzazioni sindacali, la Fiat ha comunicato che dal primo gennaio non avranno più efficacia «tutti i contratti applicati nel gruppo». Così i 70 mila dipendenti italiani del gruppo Fiat non avranno più il contratto nazionale dei metalmeccanici né il contratto integrativo Fiat ma un contratto dei dipendenti Fiat che ricalca quelli contestati di Pomigliano e Mirafiori. La Cgil sarà  esclusa dalla rappresentanza sindacale della Fiat.
Uno scontro «in grado di far scoppiare le contraddizioni di tutti: del governo perché non partirebbe bene, e di Cisl e Uil». Sono parole di Vincenzo Scudiere, segretario nazionale della Cgil, una lunga militanza in quella che fu la componente socialista del sindacato di corso d’Italia. Non certo un barricadero. Scudiere avverte un pericolo che, con il suo linguaggio, segnala anche il segretario nazionale della Fiom, Giorgio Airaudo: «Dobbiamo evitare che nella Fiat prevalga l’estremismo». Si potrebbe osservare che il consiglio sarebbe utile anche all’interno della Fiom, dove ieri il presidente del Comitato centrale, Giorgio Cremaschi, accusava la Fiat di «fascismo aziendalistico». Ma è ormai evidente che il Lingotto e il sindacato di Landini hanno ambedue diverse anime al loro interno.
L’effetto dell’estensione a tutto il gruppo Fiat (sia Fiat spa che Fiat industrial) dell’accordo di Pomigliano (o similari) è che 70 mila lavoratori italiani, non potranno essere rappresentati in fabbrica dal sindacato che hanno votato di più nei 112 anni di vita della Fiat. Un vulnus democratico evidente che non si può giustificare con interpretazioni da azzeccagarbugli sull’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori. Articolo modificato da un referendum per ampliare la rappresentanza in fabbrica e non per ridurla. Il nodo che ha segnalato ieri Scudiere e con lui l’intera Cgil, è quello di un articolo di legge che, dopo la modifica referendaria, è diventato un mostro giuridico perché finisce per legare la rappresentanza in fabbrica alla linea politica di un sindacato e non alla sua capacità  di rappresentare i lavoratori. Un vulnus che è difficile superare con la scusa che quei lavoratori hanno approvato gli accordi in referendum in cui l’alternativa era tra il sì e il licenziamento.
Si può uscire da questa impasse? E’ la scommessa da vincere per disinnescare la bomba Fiat. Il primo nodo importante da sciogliere per il nuovo ministro del welfare, la torinese Elsa Fornero. Trovare una strada per distinguere due diverse questioni: l’obbligo per un sindacato (in questo caso la Fiom) di rispettare anche gli accordi che non ha firmato e l’obbligo per un’azienda di avere in fabbrica i sindacati rappresentativi del voto dei lavoratori, a prescindere dalla loro linea politica. Il primo obbligo va a favore dell’impresa, il secondo a favore dei lavoratori. Si tratta in sostanza di affiancare alla clausola di responsabilità  sindacale, che tutela la certezza degli investimenti, una clausola di democrazia, che tutela il diritto dei lavoratori al pluralismo sindacale in azienda. Il ministro Fornero ha ottimi rapporti sia con la Fiat che con la Fiom (ha partecipato da esperto esterno al congresso torinese del sindacato di Landini un anno e mezzo fa). Dunque ha l’autorevolezza e la competenza giuste per cercare di disinnescare la bomba. Se non ci riuscirà , la trama del film in programma da gennaio è già  scritta, anticipata dall’annuncio di Landini ieri: «Stiamo preparando un libro bianco sulle discriminazioni subite dalla Fiom alla Fiat». Seguirà  una valanga di ricorsi legali contro gli accordi che mettono la Cgil fuori dalle fabbriche in ciascuno dei 180 luoghi di lavoro del gruppo di Torino. In quel caso gli unici ad aumentare le commesse e gli stipendi sarebbero gli avvocati.


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