L’ultimo Girard

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Il cerchio dei persecutori si stringe intorno alla vittima, indifesa e terrorizzata. Essi ne cercano la carne, la straziano, si nutrono del suo tormento. L’ultimo grido si incide indelebilmente nella loro anima, finché l’angoscia e il senso di colpa si impadronisce di loro. Adesso si sentono a loro volta inseguiti e afferrati dalla morte che hanno dato. Poco alla volta si uniscono al pianto della vittima, collocandosi dalla parte del dolore. Ormai la “muta di persecuzione” è divenuta “muta del lamento”. Questa scena, riprodotta in poche, rapide, sequenze in Massa e potere di Canetti, è distesa lungo le diverse fasi della civilizzazione umana da René Girard. Due conversazioni con il teologo Wolfgang Palaver, tenute a cavallo dell’11 settembre 2001, adesso tradotte da Cortina con il titolo Religione e violenza, ne sintetizzano il percorso iniziato cinquanta anni fa con il libro Menzogna romantica e verità  romanzesca. Come si stringe il nodo tra religione e violenza? Quale delle due è causa, e quale effetto, dell’altra? E soprattutto, come si determina il passaggio – cruciale anche per la nostra condizione contemporanea – dalla concezione del sacrificio di una vittima innocente all’idea di potere sacrificare se stesso, o se stessi, a favore di altri? La tesi dell’autore è che all’inizio vi sia la violenza scatenata dal desiderio mimetico – vale a dire rivolto all’oggetto soltanto perché desiderato anche da altri. Come testimonia, oltre che l’esperienza quotidiana, la grande narrativa da Cervantes a Dostoevskij, A desidera B perché lo desidera anche C. Perciò la roba, o la donna, degli altri appare sempre più desiderabile ai nostri occhi. È tale rivalità , costitutiva del meccanismo stesso del desiderio, a provocare una violenza infinita, potenzialmente distruttiva del genere umano.
Solo a questo punto intervengono le religioni arcaiche in una forma che attutisce la violenza incorporandola, e cioè orientandola verso un singolo individuo. È l’origine del sacrificio rituale che si abbatte sul capro espiatorio. Uno scarto si apre nel cuore della violenza, per poi subito richiudersi intorno alla vittima designata. Essa sposta il proprio obiettivo: da tutti a uno – uno al posto di tutti. Nei miti fondatori delle religioni più antiche si ripete ossessivamente la stessa scena originaria, riprodotta anche in Totem e tabù di Freud. Qualcuno – spesso diverso anche fisicamente dagli altri – viene circondato e ucciso, attirando su di sé l’odio che altrimenti finirebbe per annientare l’intera comunità . In tal modo, tutt’altro che causa, la religione costituisce al contempo l’effetto e l’argine della violenza. Il cerchio della morte che si serra intorno la vittima è lo stesso che consente la sopravvivenza degli altri. Naturalmente, perché questo meccanismo possa funzionare, colui che ne è colpito deve essere considerato colpevole – solo così i suoi carnefici appaiono innocenti. I miti arcaici convergono tutti in questa direzione, fondendosi con le religioni del sacrificio.
Finché, ad un certo punto, qualcosa cambia – allorché una religione, quella ebraico-cristiana, staccandosi e contrapponendosi alle altre, rovescia non la realtà , ma l’interpretazione dell’evento sacrificale. Già  nei Salmi, per la prima volta la vittima si ribella contro il linciaggio, dichiarando la propria innocenza. Ma è la Crocifissione a rompere definitivamente con il dispositivo vittimario – non salvando la vittima, ma identificando nella folla dei persecutori i veri colpevoli. È proprio lo spontaneo abbandono di Cristo alla loro violenza a riscrivere la storia dell’uomo da una diversa prospettiva che ristabilisce il vero discrimine tra colpa e innocenza. Quando Nietzsche accosta Dioniso e Cristo, coglie per primo la connessione tra mitologia e cristianesimo, senza però collocarsi a fianco delle vittime. Arrivato a lambire la verità , ma non potendo sostenere la sua luce accecante, egli si rifugia nella follia, mantenendo coperto il segreto che da millenni ci tiene prigionieri.
Che dire di simile prospettiva? Fino a che punto il racconto dell’autore appare convincente? Certo rispetto a chi, come Dawkins in L’illusione di Dio. Le ragioni per cui non credere (Mondadori 2007), attribuisce alla religione la responsabilità  prima della violenza, l’intelligenza, e anche la suggestione, della ricostruzione di Girard è incomparabile. Per quanto riguarda il terrorismo fondamentalista esploso in questi anni, egli non lo riconduce a una matrice teologica, ma piuttosto ad una politicizzazione parossistica della religione. Intanto non bisogna dimenticare che, nonostante derivi anch’esso dall’ebraismo, il monoteismo islamico resta lontano dal cristianesimo, proprio perché non ammette la possibilità  della sofferenza di Dio, precludendosi in questo modo il significato del meccanismo sacrificale. Ma ciò che conta è soprattutto la differenza tra il monoteismo religioso e quello politico. A differenza del primo, questo finisce per riattivare la spinta indifferenziata della violenza nella misura in cui antepone la potenza alla verità . Per questo Girard vede nel mondo contemporaneo da un lato una radicale diminuzione di violenza, dovuta allo svelamento del meccanismo vittimario, ma dall’altro la possibilità  catastrofica, resa tangibile dagli armamenti nucleari, di una moltiplicazione delle vittime. Emancipandosi dal sacro, le nostre società  si liberano della violenza che esso produceva ma anche dello schermo protettivo che costituiva nei confronti di una violenza indifferenziata. E come se la società  moderna, finalmente sciolta dall’imposizione del sacrificio, perdesse anche la verità  rovesciata che esso conteneva, portata finalmente alla luce dalla religione cristiana.
E tuttavia, nonostante la ricchezza del suo ragionamento, proprio in questo riferimento alla verità  della Croce il discorso di Girard sembra mostrare un doppio limite. Prima di tutto perché non tiene conto della teologia della Gloria in cui quella della Croce si è troppe volte capovolta. E poi perché, facendo della fede, necessariamente insicura, e anche “irragionevole”, l’espressione di una verità , e anzi dell’unica verità , rischia di rimettere in moto la medesima logica escludente, e dunque anche potenzialmente sacrificale, che aveva inteso denunciare. Cosa c’era, al fondo della menzogna oscena del sacrificio, se non la pretesa di uccidere in nome di una verità  più potente di una semplice vita umana?


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