Murdoch, il tramonto della leggenda

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Londra. Suo padre Rupert, cinque mesi fa, si prese una torta in faccia. Lui viene sporcato da qualcosa di più difficile da ripulire: l’accusa di essere, insieme all’anziano genitore, l’equivalente di un padrino di Cosa Nostra. «Ha mai sentito parlare del termine omertà ?», domanda provocatorio Tom Watson, deputato laburista, a metà  di un’udienza che di minuto in minuto somiglia sempre di più a un processo. «Trovo il paragone falso e offensivo», risponde James Murdoch, sforzandosi di non perdere le staffe. Ma è questo il marchio d’infamia che pochi minuti dopo la Bbc e le agenzie di stampa internazionali mettono sul volto del 38enne erede designato – fino all’estate scorsa – del più grande impero mediatico della terra: «Murdoch junior respinge il sospetto di mafia». E forse è pure vero che, nel corso del dibattimento, lui fa del suo meglio per respingerlo. Un sospetto del genere, avvalorato da intercettazioni illecite ai danni di oltre 6 mila persone e dal pedinamento, emerso appena l’altro giorno, di niente di meno che l’erede al trono di Gran Bretagna, suona tuttavia come una campana a morto per chi dovrebbe guidare aziende giornalistiche e radiotelevisive in una democrazia responsabile. Finisce così, probabilmente, infangata dall’associazione con comportamenti degni dell’Al Capone della realtà  o del don Vito Corleone cinematografico, una dinastia che per trent’anni ha dominato l’informazione mondiale.
È un impero su cui non tramonta mai il sole, quello dei Murdoch: Wall Street Journal e la rete tivù Fox in America, il Times, i tabloid e il network Sky in Gran Bretagna, giornali e televisioni in Australia, altri media sparsi per Europa e Asia. Il capostipite Murdoch era ed è ancora il re dell’informazione globale, e delle pressioni politiche: attraverso i suoi giornali e le sue tivù influenza e controlla governi, è amico (o un pericoloso nemico) per governi, primi ministri, presidenti, dalla Casa Bianca a Downing street. Può eleggere, o non fare eleggere, chi vuole, non sbaglia una mossa, e sembra destinato a continuare a crescere a dismisura, come il “Citizen Kane” del celebre film di Orson Welles. Finché, nel luglio scorso, esplode il “Tabloidgate”: la scoperta che il suo News of The World, tre milioni di copie vendute ogni domenica, più diffuso tabloid scandalistico del Regno Unito, usava detective privati e poliziotti corrotti, in combutta con spregiudicati cronisti, per intercettare i telefonini di membri della famiglia reale, leader politici, stelle dello show-business e dello sport, familiari di vittime di atroci delitti e vedove di guerra dell’Afghanistan e dell’Iraq, alla ricerca di scoop da piazzare in prima pagina.
Come nel Watergate che portò alle dimissioni del presidente Nixon, l’iniziale diniego si trasforma gradualmente in una sfilata di cadaveri (metaforici) eccellenti: arresti di giornalisti, di ex direttori, di amministratori delegati, su, su, sempre più su, fino a scalfire i proprietari, l’81enne Rupert Murdoch e suo figlio James, quest’ultimo capo delle operazioni di famiglia in Europa. I Murdoch corrono ai ripari: chiudono il News of the World, promettono di collaborare con la giustizia, s’impegnano a riportare valori etici nelle imprese giornalistiche. E, soprattutto, giurano di non avere mai saputo che operazioni illegali di così ampie dimensioni si svolgessero sotto il loro naso, approvate dai loro più stretti collaboratori: uno dei quali, l’ex direttore del News of the World Andy Coulson, spedito a Downing street come direttore delle comunicazioni e portavoce del primo ministro David Cameron, facendo balenare l’ipotesi che nella “omertà  mafiosa” possa essere coinvolto perfino il premier. Sentendo il pericolo Cameron pronuncia un severo discorso, promettendo che sarà  fatta giustizia. I Murdoch capiscono che stanno perdendo le protezioni politiche corteggiate sin dai tempi di Blair.
A una prima udienza parlamentare congiunta, in luglio, Murdoch padre si becca una torta in faccia da uno spettatore (parzialmente deviata dalla moglie, che ha la metà  dei suoi anni ed è svelta il doppio). Padre e figlio ripetono che «non sapevano», e che, quando hanno saputo, hanno messo rimedio allo scandalo. Ma nei mesi seguenti un ex avvocato e un ex redattore capo al loro servizio li smentiscono seccamente: se non Murdoch senior, suo figlio James conosceva da anni i sistemi illeciti per procurarsi ghiotte notizie. La Bbc convince un detective privato a vuotare il sacco: pedinava un centinaio di Vip, incluso il principe William, per spifferare tutto al tabloid di Murdoch. Negli stessi giorni viene arrestato, con accuse analoghe, un reporter del Sun, l’altro tabloid londinese del gruppo. Allora il virus non è stato estirpato? Non riguarda solo il News of the World? I giornali più prestigiosi di famiglia, il Wall Street Journal a New York e il Times a Londra, criticano aspramente quanto è avvenuto. Intanto gli azionisti chiedono le dimissioni di tutti i Murdoch dal consiglio d’amministrazione della società . All’assemblea generale di ottobre non ci riescono, ma intendono riprovarci a fine novembre. E Scotland Yard offre a Neville Thurlbeck, uno dei giornalisti del News of the World finiti in carcere, l’opportunità  di ottenere clemenza, se testimonierà  contro i suoi editori.
Si arriva così alla nuova deposizione di James, ieri mattina, di fronte alla commissione parlamentare. Stavolta è solo: papà , che con l’istinto del vecchio marpione annusa guai da lontano, non è al suo fianco. Giacca blu e papavero all’occhiello, in omaggio ai caduti di guerra britannici. Ma non serve a rabbonire i deputati. «Nessuno mi mise mai al corrente di sospetti riguardo a condotte errate», comincia. «La nostra azienda è umiliata per quanto accaduto. Talvolta siamo stati troppo aggressivo nel difenderci dalle accuse, e ci dispiace. Ma non mi furono mai mostrate prove compromettenti». Possibile che il suo amministratore delegato e il direttore di uno dei suoi giornali più importanti non le dicessero nulla? «Dobbiamo fidarci dei nostri dirigenti”. Un suo ex avvocato e un suo ex redattore dicono che lei sapeva da anni delle intercettazioni illecite. «Non è vero. Non sapevo. Quei due mentono. Non capisco perché lo facciano».
E’ in quel momento che il laburista Tom Watson lo interrompe. «Lei conosce il significato del termine omertà  mafiosa? Significa un gruppo di persone che giurano in segreto di tacere, fingere, ingannare, per perseguire i propri scopi. Mi pare un’accurata descrizione di come funzionava il gruppo Murdoch». James arrossisce. Stringe i pugni. Deglutisce. «Francamente», replica, «penso che la sua descrizione sia falsa e offensiva». Ma il deputato non molla: «E così lei non sapeva niente? Deve essere il primo boss mafioso della storia che non sa di essere al comando di un’organizzazione criminosa».
Da qualche parte nel mondo, davanti a una tivù, Rupert Murdoch deve essersi chiesto: «Ho capito bene?». L’anziano patriarca è stato a lungo indeciso su a chi lasciare il comando dell’impero: James pareva il favorito, rispetto al fratello Lachlan, che a un certo punto lasciò addirittura l’azienda paterna, e alla sorella Elizabeth, che non sembrava avere il carattere adatto. Ma adesso si dice che l’eredità  andrà  a Chase Carey, l’amministratore delegato di tutto il gruppo. Uno al di fuori della famiglia. Così, a quanto pare, finisce una dinastia.


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