Pdl diviso, vertice nella notte C’è chi chiede «discontinuità »

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ROMA — Il Pdl atteso alla vigilia dell’ultimo di una lunga serie di giorni della verità , è un partito turbato, inquieto, diviso. Nel vertiginoso susseguirsi di eventi e parole e smentite e incontri (fino a ieri notte a Palazzo Grazioli i big erano riuniti con il premier) che ieri hanno fatto impazzire i mercati come i Palazzi della politica, ancora una volta si sono sotterraneamente formate due scuole di pensiero. La prima è quella di chi appoggia il premier che vuole andare avanti, non mollare, provare il tutto per tutto e, se sconfitta sarà , scatenare la guerra che porta al voto. Ci sono fedelissimi, alcuni ministri, chi si sente sicuro di avere comunque un futuro in una prossima legislatura.
Accanto a questo gruppo — formato in verità  sia da falchi convinti da sempre che si muore combattendo sia da rassegnati che sanno che tanto Berlusconi «il passo indietro non lo fa, dunque inutile insistere» — esiste però un’altra corposa ala del partito che esprime una idea diversa. È quella, che vede quasi tutti gli esponenti di peso del Pdl, secondo la quale non ha senso «sottoporsi a questo rito vudù per cui bisogna farsi sfiduciare in Parlamento». Perché è vero che oggi, nel voto sul Rendiconto, la maggioranza potrebbe anche non sbriciolarsi e attestarsi sui 313-314 sì, ma «poi come andremmo avanti?». E se invece si finisse sotto quota 312, a 309-310 come prevede un ministro informato, allora «è chiaro che sarebbe finita e avremmo il dovere di fare noi la mossa prima di arrenderci».
La mossa, che stanno studiando sia a via dell’Umiltà  sia ai vertici dei gruppi parlamentari, è stata esaminata anche ieri sera al vertice con il premier. Quasi tutti i presenti — i coordinatori, i capigruppo, il segretario, la Brambilla, Letta e Bonaiuti — hanno insistito sulla necessità  di «un allargamento all’Udc». E hanno tentato di convincere il Cavaliere: proviamo a contrattaccare l’opposizione proponendo un nome «espressione della maggioranza», che segni «una discontinuità », che proponga come programma «l’attuazione degli impegni presi con l’Europa», che tenga assieme la coalizione di centrodestra e che faccia uscire «dall’ambiguità » i centristi, che dovrebbero dire da che parte stanno una volta per tutte. Potrebbe essere quello di Angelino Alfano il nome che risponde a tutte queste esigenze, e che avrebbe il merito di compattare il Pdl su una soluzione condivisa. Ma è sempre in pole position anche l’ipotesi Letta. «Se ci dicono di no, saranno loro, i centristi in primo luogo, a doverlo spiegare agli italiani», il discorso che da Cicchitto a Quagliariello è risuonato a palazzo Grazioli.
Insomma, nel Pdl ormai avanza la convinzione che non ci si possa presentare alle elezioni con le mani alzate, tanto più perché «andremmo a perderle: prima di finire nel baratro, proviamo altre strade».
Il problema però è che la resistenza del premier a ieri sera non sarebbe ancora venuta meno. E gli stessi candidati a dover sostituire il premier sono cautissimi. Gianni Letta ha detto che lui non ha alcuna intenzione di farsi avanti. E anche il segretario Alfano, raccontano, è «il primo a difendere Berlusconi contro tutto e tutti, il primo a tirarsi fuori da giochi più o meno interessati».
Al momento è così. I dubbi espressi dagli stessi Letta e Alfano, da Verdini a Cicchitto a Quagliariello sulla convenienza nell’andare avanti alla cieca, senza garanzie di tenuta, con numeri così ballerini sono rimasti appunto dubbi, consigli di fare un passo indietro, non certo aut aut. Da stasera però tutto potrebbe cambiare. Nel caso di un voto davvero deludente, la strategia del rilancio con un nome diverso da quello del premier (c’è chi, oltre a Letta, Alfano, Schifani pensa anche a Frattini) tornerà  necessariamente in auge e lo sanno bene anche a Palazzo Chigi, dove i ragionamenti sono andati anche oltre: «Se non si riuscisse ad avere uno nostro — dice un alto esponente del Pdl — il nome di Amato non è da scartare così su due piedi…».


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