POPULISMI Il codice del capo

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Il tratto caratterizzante di tali manifestazioni, dipinte al solito come forme irrituali rispetto alla configurazione postulata come normale della politica, è la riconduzione alla entità  denominata di volta in volta popolo, gente, società  civile di virtù originarie che brillano come autenticità  rispetto alla perdita di senso sprigionata dalla classe dirigente professionalizzata. In tal senso, alla fenomenologia del populismo appartengono molteplici figure e svariati comportamenti che contrappongono in maniera strutturale élite, poteri forti, istituzioni, caste e sfere pubbliche di rappresentanza. Troppi movimenti rientrano però in questo ambito di azione anticonvenzionale che sprigiona una palese estraneità  o deviazione rispetto ai moduli della rappresentanza per rendere proficuo un concetto così elastico e onnicomprensivo. Questa sterilità  assiologica di un concetto dalle maglie troppo larghe comporta la necessità  di uno sforzo di delimitazione con l’adozione di una griglia concettuale capace di fornire una selezione più specifica del fenomeno. Poiché i populismi sono variegati e hanno storie e culture diverse, il populismo andrebbe assunto come un concetto che si presenta con uno spettro mutevole che oscilla dalle manifestazioni di protesta di minoranze intense ed escluse a una tratto sistemico di forze che raggiungono il potere e connotano in varie intensità  un intero ciclo lungo della storia italiana.
Il nemico interno
Solo una ricognizione condotta sul piano storico-politico consente di fare luce anche sulle traiettorie di un incerto profilo definitorio di un concetto rimasto incagliato tra generiche formule troppo assorbenti e troppo circoscritte radiografie che descrivono manifestazioni solo contingenti. Come categoria della lunga durata, il populismo è stato esplorato da Carlo Tullio Altan che ha letto la storia politica italiana postunitaria come un pendolo di trasformismo e populismo. Nella esperienza repubblicana si distinguono una fase di populismo di lotta (movimenti e sensibilità  ostili alla rappresentanza) e una fase di populismo che si è fatto sistema. Il populismo classico o di lotta nel secondo dopoguerra coincideva con un movimento di protesta che ebbe una diffusione e una fortuna contingente. La repubblica dei partiti non era ancora nata e, nell’inverno del 1945, il commediografo Guglielmo Giannini già  dava alle stampe un volume («La folla») nel quale se la prendeva contro gli upp, cioè gli uomini politici di professione. Il motto del fondatore dell’«Uomo qualunque» era «distruggere l’upp: dichiarare reato il professionismo politico». Per Giannini i politici di qualsiasi colore erano «il nemico interno» da mandare «in un campo di concentramento». Affiorava già  allora un paradosso: tutti coloro che urlano contro i partiti e il professionismo politico poi si fanno anche loro un partito su misura e diventano professionisti della politica. La furente invettiva anticasta condotta da Giannini ebbe fiato finché durarono i generosi rifornimenti della confindustria. Nei primi anni della Repubblica però anche i poteri forti dovettero riconoscere il contributo cruciale offerto dai grandi partiti di massa alla modernizzazione del paese. Con l’invenzione organizzativa e con l’investimento culturale i partiti seppero spegnere l’antipolitica che covava nella società  italiana ed esprimere classi dirigenti di straordinaria qualità .
Al populismo di lotta che ha scandito in maniera aggressiva le tappe iniziali della prima repubblica si sostituisce, sul cadavere del sistema di partito, un populismo di sistema. Con la caduta dei partiti, il populismo da semplice devianza diventa il contrassegno di una democrazia fragile che si affida alle ingannevoli narrazioni di capi. Espresso dalla decomposizione dei partiti, il populismo diventa poi un sistema in cui la febbre della leadership ostacola la ricostruzione di valide mediazioni politiche e istituzionali. Dopo il 1994 ha trionfato una ricetta ingannevole riproposta di recente da Tremonti: e cioè solo i ricchi possono fare politica perché, avendo già  i soldi, non hanno bisogno di rubarne con scambi occulti. La formula del governo dei ricchi capeggiato dal grande imprenditore ha accelerato il declino del paese con la perdita di credibilità  negli investitori internazionali. Nel confuso ciclo politico che si è aperto in Italia nei primi anni Novanta si nota una drastica oscillazione tra lunghi momenti a spiccata dominanza populista e più contenute fasi di relativa normalizzazione del sistema istituzionale. In un caso l’aggressione alla funzione storica dei luoghi e dei soggetti della mediazione (partiti, rappresentanza) assume tonalità  assai virulente. Nell’altro il ritorno alla più civile convivenza con le forme della mediazione non si consolida come definitiva cura della decadenza populista che impone legami misticheggianti tra il capo e la massa.
La grammatica antipolitica
Queste pendolari alternanze tra due differenti tipologie di comportamento politico rinviano certo alla congiunturale presenza nel governo di forze di destra (che accentuano il profilo antipolitico dell’azione) o di sinistra (che, soprattutto nella legislatura del 1996, assumono compiti di grande responsabilità  politica e mostrano una attenzione strategica alle esigenze di più lungo periodo del paese) ma non si esauriscono per intero nella polarità  destra-sinistra. Non si può cioè asserire che la sinistra è nel suo complesso estranea al codice dell’antipolitica mentre la destra è tutta ricompresa nello schematismo populista. La sinistra radicale ha incorporato il ribrezzo antipartito proprio del populismo nuovo e antico e intende cavalcare l’onda del negativo che saluta nel carisma il ritrovato spirito dell’antagonismo che saluta il tempo della mediazione. Una oscura linea di demarcazione opera sin dentro gli schieramenti odierni e li rende vulnerabili alle penetrazioni delle facili iperboli del capo populista ostile ai luoghi della rappresentanza. La fenomenologia del populismo ricomprende un ampio spettro di atteggiamenti negativi contro la politica mediata da organizzazioni, istituti, soggetti. L’ostilità  alla realtà  di partito, schernita come indesiderato soggetto storico della mediazione tra élite di governo e forze sociali, è il pilastro della grammatica del populismo. La retorica del populismo è non a caso infarcita di espressioni cruente contro la casta, il ceto dei politicanti, la nomenclatura, il palazzo. Un filo sotterraneo populista è operante in Italia sin dal 1992 e appare provvisto di una forza di interdizione tale da ritardare ogni ricomposizione di un codice infranto del realismo politico.
La caduta del Muro aprì una crisi di sistema, da tempo in gestazione, che ben presto chiusa con il trionfo di Forza Italia. Alcuni politologi parlarono di una apparizione del partito americano nella penisola. La definizione coglieva solo alcuni aspetti, i più di superficie peraltro: la cura della comunicazione e del marketing, la visibilità  dell’immagine e della leadership. Il senso di un fenomeno politico complesso e ancora durevole, sfugge se viene ricondotto nelle maglie larghe della comunicazione. L’avventura del cavaliere è anzitutto come un clamoroso trionfo di un nuovo leader estraneo all’antico ceto politico e rivelatosi molto abile nella interpretazione esemplare delle tecniche e delle metodologie della politica spettacolo. Però è sbagliato esaurire l’intero quadro analitico a questo unico livello della grande svolta avvenuta nel campo luccicante della comunicazione. Mancava, in quell’accostamento ardito di Forza Italia al partito americano, la comprensione della sostanza della creatura di Silvio Berlusconi. Più che al partito americano abituale frequentatore del marketing, il Cavaliere si ispirava all’antipolitica di Ross Perot che, senza passare per le primarie e con alle spalle però sondaggi e denaro, si era presentato alle presidenziali racimolando milioni di voti. Come Perot anche Berlusconi aveva preannunciato la propria discesa in campo inviando ai media una cassetta preregistrata. Ben presto il miliardario Usa divenne un ospite fisso in ogni talk show. Lo stesso accadde al Cavaliere che ottenne ampi spazi televisivi in virtù dei sondaggi (i propri) che lo accreditavano di una forza elettorale (solo virtuale) e sulla sua figura vennero imbastite innumerevoli trasmissioni. A una di esse partecipò persino il leader del Pds! Oltre alla simbologia del populismo mediatizzato con Berlusconi compare un processo che si istituzionalizza come contrassegno di un’epoca politica.
Contrariamente a quanto trapela da certe immagini frettolose del marketing politico che sono ancora in circolazione, il laboratorio della comunicazione non era affatto il magico risultato di una improvvisazione creativa del capo solitario. Una efficace comunicazione appariva come il risultato di un accorto e paziente lavoro collettivo, di carattere persino multidisciplinare. Insomma, il cavaliere apparteneva al tempo nuovo della immensa fabbrica della politica spettacolo di cui conosceva la complessità , ne sopportava i costi elevati e ne coglieva le arcane regole al di là  di ogni grottesca semplificazione di qualche incauto imitatore fermo alla superficie grossolana della vendita dell’immagine. Come negare che il fenomeno Berlusconi sia stato un passaggio della politica scrutata sub specie comunicazione e quindi del populismo come metodo? È indubbio che il trionfo, per certi versi inopinato, di Berlusconi sarebbe stato del tutto inconcepibile al di fuori della generale contaminazione di politica e intrattenimento affermatasi con forza già  nei primi anni ’90. Si tratta di «quel mix di varietà , talk show, informazione e vero e proprio dibattito politico che costituisce la peculiare novità  della versione italiana della politica spettacolo» (Statera, Il volto seduttivo del potere). Questo genere ibrido di trasmissione televisiva, che ancora resiste egemone nella sua tipologia, presentava l’inconveniente spiacevole per la classe politica più tradizionale di ridurre la politica a variante dello spettacolo e di trasformare i leaders dei partiti in semplici, e talvolta goffe, comparse di un leggero gioco.
Simboli postmoderni
E però oltre alla fascinazione e alle doti manipolatorie della seduzione di massa, e quindi al di là  del populismo come metodo, occorre valutare l’impatto strategico nel più lungo termine di talune decisioni e scelte contingenti operate dalla classe politica di allora e che determinarono il populismo come sistema. Oltre la strada della seduzione esercitata con i ritrovati della favola, in Berlusconi si intravvedeva anche dell’altro: anzitutto la decisione strategica di inventare un partito-cerniera in grado di allestire sul campo di una emergenza una altrimenti impossibile coalizione tra due formazioni politiche antitetiche (la Lega e il Msi) perché tra loro reciprocamente esclusive. Certo, la politica spettacolo, che con il cavaliere irrompeva così prepotentemente sulla scena determinando l’ingresso in un’epoca nuova della comunicazione, racchiudeva una fenomenologia variopinta con una carica dirompente ed espansiva.
La penetrazione vincente del marketing politico, ovvero l’affinamento della personalizzazione esasperata del momento della leadership al di fuori di ogni contorno organizzativo, rientravano in un nuovo clima che faceva del trionfo di Berlusconi il dominio annunciato di un «simbolo del post-moderno». Il cavaliere, campione della video politica ruspante e giocosa, incarnava alla perfezione il plusvalore politico connesso al maneggio abile degli strumenti della seduzione. Al cospetto della neolingua del cavaliere gli spezzoni superstiti dell’antica classe politica erano delle comparse imbarazzanti capaci di parlare agli elettori ormai disincantati solo con un balbettante dialetto del politichese che più nessuno però comprendeva e apprezzava.


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