“Così abbiamo ucciso Bin Laden”

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LONDRA – Novanta secondi dopo l’inizio del raid, Osama Bin Laden era già  morto, ucciso da due singoli proiettili sparati con precisione e freddezza dai commandos americani. Ma i membri del Seal Team 6, il più formidabile corpo di élite delle forze armate Usa, aprirono il fuoco solo perché il capo di Al Qaeda stava per impugnare il suo kalashnikov: altrimenti lo avrebbero preso vivo.
Sui particolari dell’attacco del primo maggio scorso nella città  di Abbottabad, in Pakistan, annunciato il giorno dopo dal presidente Obama, finora si sapeva poco: e quel poco – per esempio che Osama fu ucciso quasi al termine dell’operazione o che scopo della missione era ucciderlo – risulta sbagliato secondo un libro pubblicato questa settimana negli Stati Uniti e anticipato ieri dal Sunday Times. In “Seal Target Geronimo” (il nome in codice dato a Bin Laden), un ex comandante del Seal Team 6, Chuck Pfarrer, fornisce la sua versione, basata su interviste riservate con gli autori del raid.
Gennaio 2011: il comandante del Seal Team 6 viene chiamato a rapporto in un bunker sotterraneo. Gli dicono di prepararsi per un attacco su una casa in Pakistan dove si nasconde con certezza un importante terrorista. «Sarà  Bertie o Ernie?», si chiede il comandante, i soprannomi, presi dai Muppet, popolare show televisivo per bambini, con cui i commandos chiamavano Bin Laden e il suo vice Al Zawahiri. Alla notizia che un satellite-spia ha misurato l’ombra del bersaglio e che è più alta di 1 metro e 80, i Seal pensano che sia «Bertie» ovvero Bin Laden.
Per due mesi si esercitano su una casa-modello in una base segreta negli Usa. Poi si trasferiscono in Afghanistan. Il primo maggio, una notte senza luna, si parte. Un aereo equipaggiato per la guerra elettronica, decollato dalla portaerei Vinson, mette fuori uso le comunicazioni pachistane. I Seal sono protetti da armatura antiproiettile, hanno occhiali per la visione notturna, fucili M4 a canne mozze. Con loro c’è Karo, un cane addestrato ad annusare esplosivi, anche lui con armatura antiproiettile e occhiali per vedere al buio.
Un elicottero atterra sul compound di Bin Laden a mezzanotte e 56 minuti. Dodici Seal si calano con funi sul tetto, saltano su un terrazzo, sfondano una finestra ed entrano. Si trovano davanti Khaira, terza moglie di Bin Laden, che grida terrorizzata: un raggio laser la intontisce, un commando la getta al suolo. In corridoio si apre e si richiude una porta: è Osama. Dal piano di sotto appare suo figlio Khalid: viene ucciso da una fucilata. Due Seal abbattono la porta. Il capo di Al Qaeda si fa scudo della prima moglie, Amal, che grida: «No, non fatelo!». Osama allunga un braccio verso un kalashnikov posato sul letto. I Seal sparano due colpi, che raggiungono il materasso e un fianco della donna. La mano di Osama si posa sull’arma e i Seal sparano altri due colpi: uno lo prende al petto, l’altro al cranio, uccidendolo all’istante.
I commandos di un secondo elicottero eliminano le guardie di Osama. Un terzo elicottero deposita a terra il capo missione e altri uomini. Il comandante ispeziona il corpo di Bin Laden e chiama con il telefono satellitare Washington: «Geronimo KIA», killed in action, comunica. Viene preso un campione di Dna dal corpo di Osama, che poi viene chiuso in un sacco. Vengono portati via computer, documenti e il kalashnikov del capo di Al Qaeda (ora appeso come un trofeo nel quartier generale dei Seal a Virginia Beach). Un elicottero si alza, si guasta, piomba a terra: viene abbandonato e distrutto. Tutti salgono sugli altri due e scompaiono nella notte diretti verso la portaerei. Dall’inizio del raid sono trascorsi 38 minuti. I Seal non hanno subito una perdita. E hanno sparato in tutto dodici proiettili.


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