Il conservatore Vonnegut padre ideologico della sinistra americana

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Kurt Vonnegut era un uomo arrabbiato, provocatorio e pieno di risentimento. Ma sapeva essere anche molto divertente. A New York nel 2003 per un’intervista al «Corriere», in occasione del rilancio da Feltrinelli del suo capolavoro, Mattatoio n. 5, arrivò sbattendo sul tavolo un fascicolo di articoli fotocopiati — erano le sue invettive contro il governo di George W. Bush uscite su piccoli giornali di sinistra — dicendo: «Se lo prenda, è il mio ultimo libro, quello che nessuno mi vuole pubblicare in questo Paese di merda». 

Fumò una sigaretta dopo l’altra mentre rispondeva alle domande in modo sarcastico, e arrivò a suggerire che avrebbe potuto fare anche un’avance sessuale. Forse era solo una performance: l’ennesima rappresentazione del ribelle radicale che gli aveva guadagnato tanti fan nel movimento hippie degli anni 60. Ma la sua rabbia era reale, e la sua frustrazione violenta. 
Otto anni dopo quell’intervista, la biografia di Charles J. Shields And So It Goes. Kurt Vonnegut: a Life, appena uscita negli Stati Uniti da Holt, racconta la storia di una persona tormentata dalle contraddizioni, che non trovò tregua nemmeno nella vecchiaia. Che vita quella di Kurt Vonnegut, viene da pensare dopo avere bevuto d’un fiato le cinquecento pagine di questo libro diligente e tragico. Una vita piena di paradossi pagati sulla propria pelle ma anche su quella di chi ha avuto la scarsa fortuna di condividerla. E, allo stesso tempo, una vita illuminata da un colpo di genio: la forma metanarrativa che Vonnegut seppe trovare in Mattatoio n. 5 — ispirandosi a Céline dopo vent’anni di tentativi abortiti — per raccontare quel bombardamento di Dresda che è stato una delle vergogne della Seconda guerra mondiale, decine di migliaia di civili morti senza un motivo se non la vendetta degli Alleati già  vincitori. Una storia che Vonnegut aveva vissuto senza viverla — si trovava prigioniero dei tedeschi nei sotterranei di Dresda quando erano arrivati i B17 americani, e soltanto a cose finite era uscito con il compito di raccattare i cadaveri e bruciarli — e soprattutto una storia di cui nessuno in America aveva voglia di sentir parlare. Ma che uscendo in forma di romanzo nel 1969, diventò un manifesto contro la guerra del Vietnam e un simbolo stesso della controcultura degli anni 60.
Charles J. Shields ha incontrato Vonnegut poche volte prima che morisse nel 2007 inciampando nel guinzaglio del suo cane sui gradini della casa di New York dove negli ultimi anni era diventato «ostaggio» della seconda moglie, la fotografa Jill Krementz, una donna iper controllante che il primogenito dello scrittore, Mark, definisce in questo libro «un’emanazione delle viscere dell’inferno». Ma tanto è bastato al biografo per ricostruire la parabola di un conservatore che ha fatto fortuna grazie all’investitura ideologica della sinistra; che, pur avendo sposato le tesi isolazioniste di Charles Lindbergh, era partito volontario per la Seconda guerra mondiale ed era diventato a quarant’anni un antieroe del Vietnam.
Un uomo nato in una famiglia ricchissima di Indianapolis — il padre architetto aveva sposato l’erede di un’industria di birra — che aveva perso tutto nel crash del ’29 e non si era più ripresa. Il padre si era lasciato andare alla deriva, la madre si era suicidata quando Vonnegut aveva 21 anni. Mentre il fratello Bernard dava prova di talento come scienziato, Kurt non riusciva a reggere nessuna università  per più di qualche mese. Trovò un lavoro alla General Electric, si licenziò, si mise a fare il giornalista freelance e a scrivere romanzi di fantascienza. Era già  difficile mantenere così una famiglia con tre figli, quando, nel giro di pochi mesi, la morte della sorella Alice e di suo marito gli regalò quattro ragazzi orfani a cui pensare. Adottarli e prenderli con sé fu un gesto che avrebbe guadagnato a Vonnegut l’immagine di patriarca generoso. Ma uno dei giovani adottati lo descrive in questo libro come un uomo «distante» e capace di diventare anche «crudele» quando si trattava di difendere il proprio isolamento nella grande casa di Cape Cod, nel cui giardino, dopo l’uscita di Mattatoio n. 5, sarebbero arrivati ad accamparsi decine di altri adolescenti in cerca di un padre ideologico.
Shields scrive che tra le contraddizioni di questo eroe del pacifismo c’è l’aver investito i suoi guadagni nelle azioni della Dow Chemical, l’azienda produttrice del napalm. Ma l’agente e manager di Vonnegut, Donald C. Farber, ha protestato sul «New York Times», sostenendo che il suo cliente non era al corrente dei dettagli di quegli investimenti. Rimane comunque una brutta storia. Così come un orrore tutto americano è il fatto che nel 1984 Vonnegut abbia cercato di suicidarsi, lasciando sul comodino un biglietto con scritto: «Mi tolgo di mezzo così le mie mogli potranno continuare a litigare sul mio testamento senza avere me tra i piedi».
Continuò invece a vivere bevendo molto, fumando di più, e dubitando delle proprie capacità  di pubblicare ancora un libro importante. Fino all’ultimo paradosso: quel fascicolo di fotocopie buttato sul tavolo dell’intervista nel 2003, che due anni dopo avrebbe finalmente trovato un piccolo editore. Diventando, col titolo A Man Without a Country, il bestseller più improbabile dell’anno.


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