Iraq, ammainata la bandiera Usa È finita la guerra dei nove anni

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NEW YORK — Senza trionfalismi e fanfare, in un silenzio rotto dagli elicotteri fermi a mezz’aria per prevenire un lancio di razzi da parte di qualche cellula terrorista che poteva essersi nascosta nella zona, all’aeroporto di Bagdad ieri si è tenuta la cerimonia dell’ammainabandiera che segna la fine della presenza militare americana in Iraq, 8 anni, 8 mesi e 26 giorni dopo l’attacco lanciato da George W. Bush nel marzo del 2003. Il ministro della Difesa Leon Panetta, arrivato nel Paese appena un’ora prima della celebrazione del ritiro — tenuta in un piazzale trasformato in bunker a cielo aperto, circondato da pareti di cemento armato — ha reso omaggio ai 4.487 morti americani, agli oltre 30 mila feriti e alle moltissime vittime irachene (150 mila secondo le stime più accreditate). Ha parlato davanti a duecento soldati e alcuni funzionari di Bagdad, mentre i posti riservati al premier iracheno Al-Maliki e al presidente Talabani sono rimasti vuoti.

Poi la bandiera bianca con uno stendardo al centro, simbolo delle forze Usa in Iraq, è stata arrotolata, risposta in una teca e trasferita negli Usa, dove sono già  tornati quasi tutti i soldati che hanno fin qui garantito il controllo militare del Paese. In nove anni un milione e mezzo di americani si sono avvicendati nel Paese mediorientale. Nel periodo di massima intensità  dell’offensiva, nel 2007, gli Usa sono arrivati ad avere in Iraq 170 mila uomini e 505 basi. Gli ultimi quattromila soldati partiranno entro fine anno. Ne resteranno solo duecento, equiparati al personale diplomatico, dislocati presso l’ambasciata Usa a Bagdad.
È la fine di una delle pagine più dolorose e costose della storia americana. Costosa non solo in termini di vite, visto che per questa guerra il contribuente americano ha speso circa 800 miliardi di dollari.
Ieri davanti agli occhi degli americani sono ripassate le immagine di questo tragico film: la reazione all’attacco terroristico alle Torri Gemelle del 2001, l’offensiva contro il regime di Saddam Hussein lanciato sulla base di due assunti rivelatisi infondati: un Iraq minaccia per il mondo in quanto arsenale di armi di distruzione di massa e rifugio accogliente per i terroristi di Al Qaeda. Quelle armi non c’erano e il terrorismo ha approfittato proprio della guerra civile seguita all’occupazione americana per mettere radici in Iraq.
Da sempre contrario a questa guerra, una volta divenuto presidente Barack Obama si è preso sulle spalle l’ingombrante eredità  di Bush, cercando di gestire al meglio la presenza militare nel Paese del Golfo, elogiando il sacrificio dei soldati americani che hanno servito in Iraq, rivendicando l’unico dato positivo di un conflitto durato quasi nove anni: la rimozione di un dittatore sanguinario, sostituito da un governo eletto dal popolo. Ma la fragile democrazia irachena di questo Paese a maggioranza sciita si è fin qui segnalata per alcune pericolose aperture al regime iraniano degli ayatollah.
Obama, che aveva promesso agli elettori fin dalla campagna del 2008 di portare via i soldati americani dall’Iraq, oggi può dire di aver rispettato quell’impegno. Ma nel discorso che ha pronunciato, poche ore prima della cerimonia di Bagdad, nella base militare di Fort Bragg, in North Carolina, sede della celebre 82esima Divisione Aviotrasportata, era palpabile il disagio di un presidente costretto a parlare di «eroi» e «battaglie leggendarie» a proposito di una guerra sbagliata. Un conflitto che ha devastato l’immagine degli Usa: inizialmente sollevati dalla caduta del feroce Saddam e ben disposti verso gli americani, gli iracheni sono passati dalla fiducia alla diffidenza e poi all’ostilità  man mano che si moltiplicavano incidenti, incomprensioni, massacri anche di donne e bambini.
Sono le immagini che gli americani hanno rivisto ieri: l’avanzata nel deserto quasi senza ostacoli, la statua di Saddam abbattuta a Bagdad, Bush che sul ponte di una portaerei pronuncia il celebre «Mission Accomplished». Siamo nel maggio 2003: è l’inizio della tragedia, di una serie infinita di immagini di disperazione e di morte. Gli americani erano da tempo decisi ad andarsene ma, consapevoli dell’estrema fragilità  delle strutture statali del nuovo Iraq e dell’inconsistenza del suo dispositivo di difesa, avrebbero voluto lasciare alcune migliaia di soldati come istruttori e «consiglieri militari». Non è stato possibile per l’ostilità  dell’opinione pubblica irachena e l’opposizione del nuovo governo, che pure manterrà  solidi legami con gli Usa: Al-Maliki è stato a Washington la settimana scorsa.
E ieri a Bagdad, a bandiere ormai ammainate, il generale Lloyd Austin III ha confessato che gli americani lasciano un Paese che non sarebbe in grado di difendere le sue frontiere in caso di attacco esterno.


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