La nuova era industriale di Internet

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NEW YORK — Un sensore nel frigo si accorge che il latte sta per finire. Passa l’informazione a un computer che, debitamente programmato e collegato col supermercato vicino casa, ne acquista dell’altro. È uno dei cento progetti ai quali stanno lavorando ingegneri e «computer scientist» di Google X, il laboratorio segreto della società  di Mountain View. Uno dei più banali e a portata di mano.
Pur evitando di confermare le indiscrezioni diffuse da tempo, nell’intervista di ieri al Corriere il presidente di Google, Eric Schmidt, ha parlato del programma più noto di questi laboratori: l’auto che si guida da sola, i cui modelli sperimentali già  circolano delle strade della California. Ma sono allo studio anche robot per ufficio o sistemi di illuminazione e climatizzazione gestiti a distanza con un telefonino (utilizzando la piattaforma Android), fino ad arrivare all’ascensore spaziale: un vecchio pallino del cofondatore di Google, Sergey Brin, che sogna un modo di uscire dall’atmosfera senza bisogno della propulsione di un razzo. E che si diverte a sorprendere i suoi interlocutori distribuendo un biglietto da visita ricavato da un sottilissimo foglio di metallo con una grossa X incisa al centro.
Molti «fan» della tecnologia chiamano Google X «Area 51», il nome dei laboratori segreti a suo tempo creati dal Pentagono nel deserto del Nevada. Ma i tentativi di rendere «intelligenti» molti oggetti domestici collegandoli a Internet, non hanno nulla di troppo misterioso. E molti altri gruppi si stanno muovendo in questa direzione coi loro laboratori: dall’Ibm alla General Electric, passando per Microsoft che già  una decina d’anni fa mostrava nel suo campus di Seattle un modello di casa del futuro con la cucina tappezzata di videoterminali e il salotto capace di trasformarsi in teatro.
Fin qui, però, quello che da anni gli ingegneri chiamano il «web delle cose» o, anche, l’«Internet industriale», è rimasto in gran parte sulla carta. O, meglio, abbiamo visto le prime limitate applicazioni alla meccanica di nuovi sistemi elettronici connessi ad Internet: i navigatori satellitari per le auto o il robot-chirurgo governato a distanza da un chirurgo in carne ed ossa. Ma non si è materializzata quella diffusione capillare della meccatronica in tutti gli aspetti della nostra vita, che ci era stata annunciata.
Adesso, però, sono in molti a ritenere che questa irruzione della fisicità  nel mondo virtuale di Internet sia davvero alle porte. Un cambiamento reso possibile da tre fattori: la disponibilità  in grandi quantità  e a prezzi molto bassi dei sensori Rfid (sigla che sta per «radio frequency identification»), la diffusione degli «smartphone» e una rete a banda larga sempre più potente e capillare, capace di trasferire ai centri di elaborazione l’enorme volume di dati raccolti da questi sensori. Un’evoluzione seguita dalle riviste scientifiche e analizzata qualche giorno fa anche dalNew York Times.
L’Ibm, impegnata fin dal 2008 nell’iniziativa «Smarter Planet» che va proprio in questa direzione, ora sta sviluppando ben duemila progetti in tutto il mondo basati sulla realizzazione di infrastrutture «intelligenti». Tra le sperimentazioni, quella di Dubuque, una cittadina dell’Iowa, dove viene collaudato un sistema che ottimizza la distribuzione e l’uso di acqua ed elettricità  attraverso una miriade di sensori distribuiti nelle case.
E la General Electric — un gruppo la cui immagine è associata soprattutto alle centrali elettriche, le locomotive, i motori per aereo e le pale eoliche — si è messa a investire molto anche nella «medicina elettronica» e a metà  novembre ha annunciato la creazione di un nuovo centro di software nella California settentrionale che assumerà  400 ingegneri incaricati di sviluppare l’«Internet industriale». A cominciare dai sensori che, inseriti nei motori dei jet, dovranno ottimizzare i consumi e segnalare in anticipo anomalie che potrebbero sfociare in un guasto.
Nulla di futuribile: tecnologie analoghe sono già  utilizzate industrialmente. Ad esempio dal gigante petrolifero Bp che nelle sue raffinerie usa in modo intensivo i sensori per misurare il grado di corrosione delle tubature.
Oltre alle grandi multinazionali della tecnologia, poi, in questo campo sono attive anche molte «start up» come quella che sta realizzando il Kinze Autonomy Project: un trattore senza conducente e un rimorchio agricolo che eseguono automaticamente la mietitura del grano. O come i Nest Labs di Palo Alto che due mesi fa hanno messo sul mercato un termostato digitale capace di registrare non solo la temperatura degli ambienti, ma anche i movimenti delle persone all’interno di un edificio, adeguando automaticamente la climatizzazione delle stanze abitate.
Nuove tecnologie che aumentano la sicurezza e ci renderanno la vita più facile, ma che hanno anche i loro punti interrogativi. Ameno tre. Intanto la vulnerabilità  di queste reti nervose che governeranno ogni attività  agli attacchi cibernetici da parte di «hacker» o, anche, di governi ostili. Non è fantascienza: i progetti nucleari dell’Iran sono stati gravemente danneggiati per via informatica, senza sparare un colpo. Un secondo motivo d’allarme viene dalla perdita di posti di lavoro provocata da processi di automazione sempre più spinti. Infine l’invasione della nostra sfera privata come nel caso della camera ospedaliera «smart» realizzata dalla General Electric. Tutto sotto controllo con sensori e telecamere che reagiscono anche a una contrazione di dolore sul viso del paziente.


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